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Tag: strategia

Startup e strategie di Pricing: esperienze e consigli di founder di successo

Il post di oggi è incentrato su un aspetto specifico e fondamentale per una startup che, dopo aver superato i primi ostacoli, sviluppato un MVP funzionante e, in alcuni casi, implementato uno o più pivot, si appresta a lanciare il prodotto sul mercato. A questo punto, è necessario concentrarsi su un problema spesso particolarmente complesso per gli startupper: definire la strategia di pricing.

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Un recente post apparso sul blog di Foundr a firma di Jonathan Chan viene in aiuto alle startup alle prese con la definizione dei prezzi, raccogliendo i consigli e le esperienze di 11 startupper che hanno già vissuto e superato con successo questo momento delicato della crescita di un business: ripercorriamo quindi i suoi passi, elencando uno per uno i punti salienti delle 11 interviste raccolte da Chan.

INTRODUZIONE

Una volta superate le fasi iniziali di vita, per la startup arriva finalmente il momento di monetizzare: è in questa fase che subentra la necessità di stabilire “il prezzo giusto” per il proprio prodotto.

Il pricing è un’attività tutt’altro che semplice, sempre in bilico nel dubbio tra un prezzo troppo alto (a rischio che nessuno compri il prodotto) e un prezzo troppo basso (che vanificherebbe tutti gli sforzi e le risorse impegnate finora nel progetto).

Le domande che Chan pone ai 11 startupper di successo intervistati sono essenzialmente tre:

a) Qual è la vostra strategia di pricing?
b) Che cosa ti ha fatto decidere il prezzo X per il tuo prodotto?
c) Qual è la cosa più importante da tenere a mente quando si tratta di stabilire il prezzo?

1. John Lee Dumas (Entrepreneur On Fire)

Come si fa a dare un prezzo alla propria passione? Questa è la domanda che J.L. Dumas si è posto nei 12 mesi in cui ha lavorato al suo ultimo progetto, The Freedom Journal.

Per stabilire il prezzo finale di The Freedom Journal (attualmente pari a 35$), Dumas si è concentrato su tre aspetti:

a) Ricerche di mercato: Dumas ha acquistato tramite Amazon tutte le riviste simili alla sua, studiandone i contenuti e confrontandone i prezzi.

b) Coinvolgimento dell’audience di riferimento: utilizzando SurveyMonkey, Dumas ha effettuato un sondaggio per capire cosa pensavano i potenziali clienti sul tema e misurare la loro “sensibilità al prezzo”.

c) Intuito: l’intuizione è un mezzo potente a disposizione di ciascuno di noi e Dumas consiglia a tutti di utilizzarla al meglio nella strategia di pricing.

2. Dan Norriss (WP Curve)

Il consiglio più diffuso quando si parla di pricing è quello di aumentare i prezzi: secondo Norriss si tratta decisamente di un cattivo consiglio. In questo modo si rischia di soffocare l’innovazione, trasformando il proprio business in un servizio di consulenza come tutti gli altri.

Generalmente, le aziende smart e competitive sono riuscite a fare un passo avanti rispetto ai concorrenti, favorendo la diffusione dell’innovazione con prezzi più convenienti rispetto a quelli di prodotti già sul mercato.

Quando ha dovuto definire il prezzo per WP Curve, Norriss ha calcolato in maniera approssimativa quanto gli sarebbe costato il servizio per ciascun utente. Ed ha stabilito il prezzo finale raddoppiando quella cifra.

Ancora oggi, controlla regolarmente la stima di partenza e mantiene questa linea, anche se questo ha significato a volte sacrificare parte dei margini: ma non ha intenzione di cambiare la propria strategia, perchè è convinto che per una startup sia fondamentale mantenere l’equilibrio tra l’esigenza di essere disruptive e quella di diffondere l’innovazione.

3. Ramit Sethi (I Will Teach You How To Be Rich)

Il team di I Will Teach You How To Be Rich ha deciso di offrire gratuitamente agli utenti circa il 98% del suo materiale, con l’obiettivo di fare del proprio materiale free un contenuto migliore di tanti altri a pagamento.

Questa decisione, assieme ad altre scelte strategiche come quella di non poter acquistare i corsi direttamente dal sito web, costa alla startup oltre 2 milioni di $ all’anno. Ma allora perchè lo fanno?

Prima di tutto, secondo Sethi, questa strategia consente di educare il consumatore al perché il materiale di I Will Teach You How To Be Rich è migliore di altri. Ancora più importante, la scelta è imperniata sull’obiettivo di costruire una relazione duratura con il cliente, basata sulla fiducia.

Una volta costruita una solida relazione con il cliente, sarà possibile offrirgli un corso che rappresenta il top a livello mondiale, al prezzo più adatto ad un prodotto del genere: Sethi è assolutamente convinto che nella definizione della strategia di pricing bisogna concentrarsi sull’autostima e sulla convinzione del valore del proprio prodotto.

Se non si è assolutamente convinti che il proprio prodotto rappresenti il top sul mercato, infatti, è probabilmente necessario continuare a lavorare allo sviluppo, allo scopo di farne il migliore in assoluto.

4. Yaro Starak (Entrepreneur’s Journey)

Il modello seguito da Starak nella definizione dei prezzi ricalca il concetto di “imbuto di vendita”, in cui il prezzo cambia a seconda del punto dell’imbuto in cui è posizionato:

– Se il prodotto è “front-end” significa che è posizionato all’entrata dell’imbuto, per cui l’obiettivo è quello di distribuire il valore mantenendo un prezzo abbastanza basso, in modo tale che sia una spesa facile da giustificare;

– Se il prodotto è “back-end” è venduto a clienti che hanno già acquistato da voi in precedenza, con cui esiste quindi un rapporto già collaudato. Si tratta quindi di un acquirente attivo, disposto a spendere di più per avere un prodotto di livello più elevato.

Un altro aspetto da considerare quando si stabiliscono i prezzi è quello che tiene conto del livello di supporto/contatto/complessità. In linea generale, quando il cliente ha un livello di questo tipo particolarmente alto (ad esempio nei servizi di formazione), è possibile mantenere elevato il livello dei prezzo. Allo stesso modo, quanto più complesso è il problema che il prodotto risolve, tanto più il prezzo potrà raggiungere livelli alti.

Ancora, una variabile utile da considerare nella definizione del pricing è quella relativa al risultato che il cliente ottiene attraverso il prodotto: quanto più il prodotto porta un grande cambiamento nella vita del cliente, tanto più il prezzo potrà essere elevato.

Infine, secondo Starak, in caso di dubbio è utile basarsi sul prezzo di altri prodotti simili.

5. Andre Eikmeier (Vinomofo)

La strategia di prezzo di Vinomofo è decisamente semplice: il loro scopo è quello di garantire al cliente il minor prezzo possibile su qualsiasi vino. Il team si concentra, quindi, nella scelta dei fornitori di migliori prodotti al minor prezzo possibile, aggiungendo il margine destinato a Vinomofo. Se il prezzo ottenuto non è il miglior prezzo sul mercato, molto semplicemente non lo acquistano.

In questo modo, gli utenti di Vinomofo sanno che il prezzo a cui acquistano il proprio vino è il migliore possibile: così si costruisce un rapporto di fiducia con la clientela.

In sintesi, la strategia di pricing di Vinomofo si concentra su tre aspetti: cliente, fornitore, azienda. Tutte e tre le parti in gioco devono ottenere un vantaggio dalla transazione.

6. Rand Fishkin (Wizard of Moz)

La strategia di pricing è nata a seguito di una serie di tentativi ed errori, test, ricerche ed indagini di mercato: non c’è nessuna formula preconfezionata. La scelta è stata fatta basandosi su aspetti quali il margine desiderato dalla startup, il budget disponibile del target di riferimento, la concorrenza.

Secondo Fishkin, per il pricing in un business SaaS come quello di Wizard of Moz bisogna focalizzarsi su due aspetti:

– Conservazione: stabilire un prezzo al quale i clienti sentono di ottenere valore,
– CAC o rapporto CLTV/CAC (costo di acquisizione cliente o rapporto tra lifetime value del cliente e CAC): si tratta di metriche che aiutano la startup a scalare con profitti tali da poter reinvestire per la crescita del business.

7. Micah Mitchell (MMMastery)

Il prodotto di punta di MMMastery è Memberium, un prodotto software per cui il prezzo è stato inizialmente stabilito basandosi sull’analisi della concorrenza, fissando un prezzo inferiore alla media di mercato.

Sulla base di tale analisi è stato possibile fissare un prezzo pari a 47$ per abbonamento mensile, quindi al di sotto della “barriera psicologica” dei 50$. Inoltre, si tratta di una cifra mensile che il cliente non ha grossa difficoltà a spendere.

Il team di MMMastery ha previsto in seguito la possibilità di acquistare un abbonamento annuale al prezzo di 470$, dopo aver calcolato che rinunciare a due mesi di abbonamento non avrebbe avuto grosse ricadute sui profitti, ma avrebbe fatto un’ottima impressione alla clientela.

Secondo Mitchell, infatti, la prima cosa da tenere in mente quando si stabilisce la strategia di pricing è come si sentirà il cliente quando arriverà la fattura: l’analisi della concorrenza è un aspetto da considerare, ma non deve essere il principale focus nella definizione della strategia di pricing.

8. Troy Dean (WP Elevation)

Dean afferma di aver sempre voluto posizionare il proprio prodotto nella fascia più alta del mercato, per cui è necessario concentrarsi e lavorare per offrire maggior valore rispetto ai concorrenti.

La sua strategia si basa su una domanda rivolta direttamente al cliente: “Questo problema è talmente importante per voi da essere disposti a pagare TOT per risolverlo?”

Una volta raccolte le risposte, Dean ed il suo team si mettono al lavoro per ottenere un prodotto in quella fascia di prezzo, che soddisfi il cliente e consenta all’azienda di ottenere dei profitti.

Il ruolo e la collaborazione del cliente sono quindi centrali nella strategia di pricing di WP Elevation, così come lo sono stati nella fase di product development.

9. Dean Ramler (Milan Direct)

Il prezzo, secondo Ramler, è un aspetto assolutamente unico e specifico, differente per ogni azienda. Milan Direct è un rivenditore di mobili on-line che lega il proprio brand al concetto di valore: per questo motivo, il team deve stare molto attento a non fissare un prezzo troppo alto o troppo basso.

La strategia prescelta è quella di non giocare con i prezzi: niente margini folli, ma semplicemente il miglior prezzo possibile tenendo conto dei costi e dei margini necessari a mantenere il business remunerativo.

Nel fissare i prezzi, inoltre, Milan Direct tiene conto della concorrenza, anche se la startup ha avuto raramente problemi a mantenere il miglior prezzo sul mercato.

10. Ankur Nagpal (Teachable)

Il prezzo deve essere stabilito sulla base dell’effettivo valore del prodotto: l’unica cosa che conta è il risultato per il cliente. Ed è proprio su questo aspetto che vanno impostate le strategie di pricing secondo Nagpal.

Nel caso si Teachable, ad esempio, il prodotto offerto consiste in corsi di formazione on-line. Se un corso di Teachable consente al cliente di ottenere un aumento da 10K del proprio stipendio, è decisamente possibile vendere il corso a più di 29$ indipendemente dal numero di ore di contenuti.

11. Xavier Major (Automation Masterminds)

Major utilizza una combinazione di intuizione e ricerca per determinare il livello dei prezzi: solitamente, la ricerca viene effettuata analizzando i prodotti simili e quelli competitivi del settore, ma anche il valore che i prodotti offrono al pubblico. Se il prodotto è legato ad un chiaro risultato in termini di valore per il cliente, infatti, il prezzo non è più un problema ed è possibile stabilirlo senza grosse difficoltà.

La cosa principale da tenere in considerazione è che il pricing è un’arte, non una scienza: il prezzo va stabilito e testato, per capire se funziona per il tuo business.

CONCLUSIONI

Dopo aver raccolto i pareri, i consigli e le esperienze di tutti gli startupper intervistati, Chan elenca i punti salienti su cui sembrano essere tutti concordi:

– Il miglior prezzo è quello che tiene basse le aspettative, ma a cui corrisponde un prodotto di grande valore,

– Scoprite cosa fanno i vostri concorrenti e perché,

– Bisogna concentrarsi sempre sul cliente e sulla sua esperienza.

Il post originale è disponibile qui: http://foundrmag.com/12-top-tier-entrepreneurs-share-their-best-advice-on-pricing-strategy/

Napoli, 20/11/2015

Startup Tips – Quali sono le metriche fondamentali per capire se un’impresa è destinata al successo?

Jay Block (CEO di The Small Business Journal) ha appena pubblicato su LinkedIn un interessante contributo incentrato sul successo di startup ed imprese, che raccoglie alcuni consigli ed osservazioni tratte dall’autore a seguito di un’intervista a Jack Welch, CEO di General Electric per oltre vent’anni ed attualmente presidente esecutivo del The Jack Welch Institute Management.

E’ risaputo che essere un imprenditore rappresenta allo stesso tempo un sogno che si realizza, e un incubo da cui si vorrebbe fuggire: non esiste una scadenza entro la quale si possa avere la sicurezza di raggiungere il successo e si deve lavorare anche 24 ore al giorno, impegnandosi nelle attività più disparate.

Secondo Block, nella vita di uno startupper e, più in generale, di un imprenditore arriva sempre, prima o poi, il momento in cui ci si deve necessariamente fermare a riflettere e a chiedersi: “Il mio lavoro sta davvero andando avanti nel modo giusto?”.

Una startup (o un’impresa) presentano così tante variabili che è davvero difficile capire se si stanno facendo i progressi giusti: ma dall’intervista a Jack Welch, che è decisamente uno dei massimi esperti a livello mondiale in materia di impresa, è possibile ricavare quelli che sono i punti principali (e le relative metriche) da analizzare per provare a misurare il successo di un’azienda.

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Secondo Jack Welch, i tre indicatori principali su cui misurare il successo di un’impresa sono i seguenti:

1. Employee engagement

L’engagement (o coinvolgimento) dei dipendenti rappresenta il primo indicatore analizzato nel post di Jay Block e si basa su un concetto di semplice ed immediata comprensione: nessuna impresa, piccola o grande che sia, può avere successo nel lungo periodo se i dipendenti non credono nella mission e non sanno come raggiungere gli obiettivi.

Ecco perché è indispensabile misurare l’engagement dei dipendenti almeno una volta all’anno, attraverso indagini anonime che diano alle persone coinvolte la totale sicurezza di anonimato, in modo da sentirsi libere di rispondere alle domande senza alcun tipo di filtro.

Le indagini più significative si focalizzano su cosa pensano i dipendenti sulla direzione strategica e sulle opportunità di carriera in azienda. Le domande più utili da porre sono, ad esempio: Credi che l’azienda abbia obiettivi che le persone riescono ad afferrare, accettare e sostenere completamente? Senti che l’azienda si prende cura di te e che ti offre l’opportunità di crescere? Pensi che il tuo lavoro di tutti i giorni sia collegato a ciò che la leadership aziendale inserisce nei report annuali?

In sintesi, le indagini più efficaci tra i dipendenti riportano tutte ad un’unica, fondamentale domanda: siamo tutti nella stessa squadra?

2. Customer Satisfaction

La crescita dei ricavi è la chiave per la redditività a lungo termine e l’indicatore da considerare a riguardo è il livello di soddisfazione del cliente: anche in questo caso, si tratta di una misurazione che può essere effettuata attraverso apposite indagini.

Le indagini di Customer Satisfaction sono più complesse di quelle esaminate al punto precedente e raramente i risultati raccolti daranno una reale lettura della situazione: ecco perché bisogna impegnarsi in un approccio più diretto e relazionale, andando ad incontrare i clienti più da vicino possibile (non basta l’approccio on-line, è importante il faccia-a-faccia!).

In questo ambito, inoltre, è fondamentale fare di ogni visita al cliente un momento di apprendimento da cui provare a trarre più informazioni possibile: lo scopo deve essere quello di trovare almeno una dozzina di modi per chiedere “Cosa possiamo fare di meglio?”

3. Cash Flow

Infine, Block analizza la tematica del Cash Flow (il flusso di cassa), in accordo con un detto tanto antico quanto attuale: “i numeri non mentono mai”. E, in particolare, il Cash Flow rappresenta la metrica che più di tutte riesce a fotografare il successo (o l’insuccesso) dell’azienda.

Tutte le altre metriche su perdite, profitti, utili vengono in qualche modo “manipolati” dal processo di accounting, che si basa per sua natura su delle ipotesi: il cash flow, invece, è la sola metrica a poter fotografare la reale condizione in cui si trova l’impresa. Consente di capire quali sono i margini di manovrabilità, se è possibile remunerare gli azionisti, pagare i debiti, prendere altro capitale in prestito per crescere più velocemente, o combinare più di queste opzioni.

Il Cash Flow, afferma l’autore, aiuta a capire la situazione attuale e a controllare le strategie future.

In sintesi, Block conclude la propria analisi ribadendo il concetto espresso inizialmente: ci sono molti modi per “tastare il polso” di un’impresa, ma se ci sono l’engagement dei dipendenti, la customer satisfaction ed il cash flow giusto si può star sicuri che l’azienda è sana ed è sulla buona strada verso il successo.

Per leggere il post originale: https://www.linkedin.com/pulse/find-dozen-ways-ask-how-can-we-do-better-jay-block?trk=hp-feed-article-title-channel-add

Napoli, 18/11/2015

Marketing Plan per startup: una vera e propria strategia militare per evitare errori da principiante

Mike Troiano è CMO per la startup Actifio, “unicorno” che è riuscito a cambiare il modo in cui le imprese di tutto il mondo gestiscono i propri dati. Troiano, inoltre, è mentor di TechStars e partner in G20 Ventures, oltre che autore di interessanti post su portali internazionali come Medium. Proprio su Medium ha di recente pubblicato un contributo dedicato alla tematica del Marketing Plan per startup: il suo punto di vista si basa su come applicare una vera e propria strategia militare vincente a questa attività di planning fondamentale per le nuove imprese.

Quando un founder deve scrivere un Marketing Plan per la propria startup, nella maggior parte dei casi, segue il primo istinto di creare una vera e propria lista di cose da fare, cui assegnare un relativo budget. Di solito il Marketing Plan di una startup viene trasformato in una corposa presentazione con decine di slide, da titoli un po’ altisonanti come “High Level Gantt Chart” o “Next Steps”.

Troiano ritiene che questo approccio al Marketing Plan sia assolutamente errato: il suo consiglio è quello di iniziare riflettendo sulla vita e le strategie messe in pratica dal grande militare prussiano Helmuth Karl Bernhard Graf von Moltke, considerato da molti il padre della moderna strategia militare. Anche se il suo nome può essere poco noto, molti probabilmente conoscono una delle sue massime più famose: “No plan of operations extends with certainty beyond the first encounter with the enemy’s main strength”, che semplificata e tradotta suona come “Nessun piano sopravvive al contatto con il nemico”.

Alcuni interpretano questa affermazione in una maniera decisamente radicale, dandogli il significato di “la pianificazione è un’attività inutile”. Ma la citazione riportata è solo la prima parte di un discorso più ampio di Moltke, che prosegue con “la strategia è un sistema di espedienti”. Leggendo la citazione al completo, si capisce che ciò che Moltke intendeva veramente dire è che la strategia militare va intesa come un sistema, un programma di opzioni ed espedienti, dal momento che l’unica parte a poter essere pianificata nel dettaglio è il primo passo. Moltke non era contrario ai piani… anzi, era proprio il contrario! Secondo Moltke, il compito principale di un leader militare sta nell’essere preparato ad affrontare tutti i possibili risultati e le possibili evoluzioni che seguono il primo passo della strategia.

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Vediamo, quindi, come costruire un Marketing Plan per una startup “in stile Moltke”. Il primo passo consiste, secondo Troiano, nell’accurata definizione di sei termini su cui spesso gli startupper fanno confusione:

1. GOAL – ciò che speriamo di raggiungere;
2. OBIETTIVO – in che modo è possibile misurare il nostro goal;
3. STRATEGIA – l’approccio che riteniamo sia in grado di farci raggiungere l’obiettivo;
4. TATTICA – l’execution vera e propria, che converte la strategia in azione;
5. PROGRAMMA – la raccolta delle tattiche che scegliamo di (e)seguire;
6. PIANO – cosa bisogna fare e quando, con la chiara definizione delle attività cui dare precenza.

Un buon Marketing Plan per una startup inizia da un chiaro consenso riguardo gli specifici goal da raggiungere: si tratta di pensare a ciò che davvero si vuole realizzare nei mesi a venire. Una volta identificati chiaramente i goal, si passa alla fase successiva: tradurli in obiettivi specifici e misurabili. Ecco perchè la parte più difficile è identificare le metriche giuste per misurare i goal della singola startup: solo con le metriche giuste sarà possibile focalizzare le migliori strategie.

Il terzo passo, infatti, è stabilire le strategie: il consiglio generale è quello di mantenere il più possibile un profilo di semplicità e linearità. Ancora, sulla base delle strategie è possibile identificare le tattiche e, quindi, le persone che realmente dovranno metterle in pratica. Le tattiche vanno poi raggruppate in cluster, che raggruppano azioni coordinate che a loro volta formano i programmi. L’ultimo step consiste nell’assegnare le risorse ed i tempi a ciascun programma, secondo un piano ad hoc, da condividere con l’intero team.

In ogni caso, conclude Troiano, il punto di riferimento deve essere sempre la frase iniziale di Moltke: nessun piano sopravvive al contatto con il nemico, ecco perchè la strategia è un insieme di espedienti. Una volta individuati goal ed obiettivi, strategie e tattiche, piani con tempi e risorse, una startup deve essere sempre pronta a scontrarsi con la realtà del mercato e cambiare rapidamente direzione quando necessario.

Il post originale di Troiano, con alcuni esempi pratici di ciascuna delle sei voci analizzate, è disponibile qui: https://medium.com/@miketrap/how-to-write-a-startup-marketing-plan-a6e58bc21dbb

Napoli, 15/10/2015

The Startup Framework: sei passi per convalidare il prodotto senza investire capitale

Mitchell Harper è CEO di Capital H Labs, startup studio che si occupa di prodotti e strumenti utili alle nuove aziende nel loro percorso di crescita, ed è co-founder di Bigcommerce, startup fondata nel 2009 che conta oggi oltre 100.000 clienti e 500 dipendenti. Sul portale Medium ha recentemente pubblicato i suoi consigli per le startup, con particolare riferimento ad un framework in 6 fasi da utilizzare allo scopo di convalidare l’idea prima di iniziare ad investire denaro nel progetto.

Secondo Harper, sono essenzialmente due le attività da svolgere in una startup prima di lanciare il prodotto:

1) validare il bisogno del prodotto,
2) creare un prodotto che risponda al bisogno riscontrato.

La validazione del prodotto è essenziale per una startup: senza un’adeguata validazione del prodotto rispetto al mercato di riferimento, infatti, si rischia di ritrovarsi tra le mani un prodotto per il quale nessuno sarà disposto a pagare. Ciò significa bruciare un sacco di risorse in termini di tempo, lavoro e denaro, per non parlare degli strascichi che il team porta addosso dopo un fallimento.

Ecco perchè il team di Harper ha realizzato un vero e proprio framework, un canovaccio di attività da seguire ed implementare prima di investire anche un solo euro in una startup: vediamo quali sono le fasi che lo compongono.

FASE 1 – Identificare il problema, non la soluzione

Lo scopo è quello di riuscire a spiegare in maniera chiara ed articolata un problema che si verifica regolarmente per voi e/o per gli altri. Attenzione: in questa fase occorre concentrarsi esclusivamente sul problema, la soluzione sarà in un secondo momento.
Bisogna riuscire a descrivere il problema in una frase, più semplice possibile, ad esempio:

– Non è possibile continuare a mantenere un contatto con la clientela una volta che lasciano il ristorante;
– La progettazione grafica di qualità professionale per i social media è troppo difficile.

In conclusione, si avrà l’idea solo quando si sarà in grado di articolare il problema in una frase unica, semplice ed efficace.

FASE 2 – Determinare se si tratta o meno di un problema di primo livello

Identificare i problemi è piuttosto semplice, ce ne sono ovunque: ciò che davvero una startup deve riuscire a fare è identificare un problema “di primo livello”. Per problema di primo livello si intende che quello che si sta cercando di risolvere rappresenta uno dei tre problemi più importanti che i potenziali clienti stanno vivendo.

Prendiamo, ad esempio, il caso in cui il nostro cliente target sia il CEO di una piccola impresa. I primi cinque problemi del target di riferimento potrebbero essere i seguenti:

1. Generare più vendite
2. Far funzionare in maniera efficiente il marketing (assumere un responsabile marketing)
3. Esternalizzare (outsurcing) il payroll ed i benefit
4. Migliorare la product selection
5. Avviare una campagna social efficiente, investendo in Facebook Ads

Se la nostra startup sta cercando di lanciare sul mercato un social media tool, è evidente che il CEO di una piccola impresa non dovrebbe essere il suo target di riferimento: il problema dei social media, infatti, non è tra i primi tre della sua lista, bensì si trova al quinto posto. I CEO di una piccola impresa saranno, quindi, troppo impegnati a risolvere i primi tre problemi per interessarsi sufficientemente al prodotto della startup in questione.

Questo ragionamento è spesso difficile da accettare per i founder di una startup, che sono convinti di avere il miglior prodotto possibile da offrire: la verità è che bisogna identificare il proprio target in maniera più efficace, costruendo un vero e proprio profilo/base di chi è interessato ad acquistare il prodotto. Ad esempio, identificando le dimensioni dell’azienda, il ruolo, la localizzazione ed il settore di riferimento.

Una volta costruito il profilo-base del potenziale cliente target, è utile costruire una lista di almeno 20 persone che soddisfano i requisiti (ad esempio, basandosi sui profili LinkedIn). A questo punto, occorre inviare un messaggio ad ognuno dei nomi presenti nella lista per proporre una breve chiamata conoscitiva, allo scopo di effettuare una ricerca di mercato.

Quando si scrive il messaggio occorre tenere ben presenti alcuni brevi ed efficaci consigli offerti da Harper: essere brevi e andare dritti al punto, specificare il giorno e l’ora in cui si vuole effettuare la chiamata, costruire una lista di almeno 3 volte il numero di persone che si desidera effettivamente intervistare.

Una volta giunti a questo punto, si avrà a disposizione una lista di potenziali clienti che realmente vivono il problema identificato: si può dunque procedere con le interviste, che dovranno essere costruite in modo tale da convalidare alcuni elementi.

Al termine delle interviste dovranno essere ben chiari i seguenti punti:

1. Il modo in cui si sperimenta il problema
2. Quanto è effettivamente sentito il problema (è un problema di livello 1?)
3. Come cercano di risolvere il problema attualmente
4. Sarebbero disposti a pagare per una soluzione?

FASE 3 – Identificare correttamente le soluzioni attualmente esistenti

Tra le informazioni di cui si dispone dopo aver effettuato le interviste, ci sarà un’idea ben chiara del modo in cui attualmente è possibile risolvere il problema. Ad esempio, gli intervistati potrebbero nominare specifici prodotti o aziende a cui fanno riferimento. A tal proposito, l’autore mette in guardia da un possibile e diffuso errore in fase di intervista: non bisogna chiedere nello specifico “quale prodotto utilizza al momento per affrontare il problema?”, ma mantenersi su un generico “in che modo affronta il problema attualmente?”.

Solitamente, una startup cercherà di risolvere un problema che già altre aziende provano a risolvere: ciò può accadere in un mercato abbastanza grande, con un problema di livello 1 che almeno un concorrente attualmente risolve in maniera efficace (ciò può significare che esiste traction, che ha raccolto fondi, che è in attività da alcuni anni, che è in fase di crescita, etc).

Se non esiste nessuno che sta cercano di risolvere quello specifico problema, invece, bisogna fare attenzione: nella maggior parte dei casi significa che non esiste un mercato di riferimento, o che non è abbastanza grande da giustificare un investimento.

FASE 4 – Cercare i difetti delle soluzioni esistenti

Che ci siano o meno dei prodotti che attualmente risolvano in qualche modo il problema, lo step successivo consiste nel capire quali sono i difetti dell’attuale processo di soluzione del problema.

Se c’è già un prodotto concorrente, lo scopo deve essere quello di capire in che modo la nostra startup può riuscire ad offrire qualcosa di diverso e maggiormente efficace: non basta una semplice differenza, occorre che sia una differenza che rende la nostra soluzione migliore di quella dei concorrenti.

Se non c’è un prodotto concorrente vero e proprio, ma un processo composto da una serie di prodotti, servizi, modalità che gli intervistati utilizzano, è utile capire bene di cosa si tratta per capire quali siano i difetti di questo processo (tempi, complessità, costi, frustrazione).

Lo scopo finale della fase 4 è quello di riuscire ad articolare chiaramente in che modo la nostra soluzione è migliore rispetto agli attuali prodotti/processi utilizzati.

FASE 5 – Verificare se esiste un budget per la soluzione

Se esistono già dei prodotti concorrenti, è possibile osservare e studiare i loro dati in termini di traction: stanno crescendo rapidamente? Hanno un sufficiente volume di clienti? Hanno chiuso con successo operazioni di fund raising? Stanno assumendo personale?

Se ci sono dei segnali di crescita per i concorrenti, significa che questi ultimi hanno un buon prodotto, che sta generando entrate e per cui ci sono dei clienti disposti a pagare. Il che significa che qualcuno ha un budget assegnato per prodotti di questo tipo.

A questo punto può essere utile effettuare alcune interviste di follow-up (possono bastarne 10) per chiedere un parere sul prezzo che sarebbero disposti a pagare per una soluzione al problema che hanno dichiarato di vivere. Questa seconda tornata di chiamate potrebbe essere strutturata nel modo seguente:

ricapitolare il problema,
spiegare la nostra soluzione, focalizzandosi sul perché è migliore di quelle attuali,
chiedere quanto sarebbero orientativamente disposti a pagare per la nostra soluzione.

FASE 6 – Utilizzare le informazioni ottenute per stabilire una roadmap

Una volta identificato il problema, la soluzione, il potenziale mercato di riferimento, la concorrenza, il vantaggio competitivo e il prezzo è possibile prendere una decisione definitiva: avviare o meno una startup?

Se si decide di avviare una nuova impresa, è possibile compiere i successivi passi come la pianificazione del prodotto e la costruzione del MVP. Ma, nella definizione della sua roadmap con tutte le attività e gli obiettivi, la startup prenderà il via con il vantaggio essere riusciti a validare il prodotto senza aver investito capitale, grazie al framework proposto da Harper.

Per leggere il post originale: https://medium.com/swlh/the-startup-framework-to-validate-your-idea-before-you-spend-1-5c475a3bbd6f

Napoli, 09/10/2015

Startup e grandi aziende a confronto: puntando a soddisfare il cliente, Davide riesce a vincere contro Golia

Darren Guarnaccia è Chief Strategy Officer per Sitecore, azienda leader globale nel settore del Customer Experience Management: il suo compito è quello di guidare la strategia dell’azienda, plasmare i prodotti in maniera tale da semplificarne la complessità ed offrire al cliente la miglior esperienza possibile.

Alcune settimane fa, il portale Mashable ha pubblicato un articolo di Guarnaccia dal titolo “Size matters: Why it’s better for startups to be David than Goliath”.
Si tratta di un interessante punto di vista che accomuna le startup al piccolo Davide e i grandi colossi dell’industria al gigante Golia: nella leggenda, Davide riesce a vincere la battaglia grazie alle sue tattiche intelligenti fino ad abbattere Golia con una semplice fionda.

Secondo Guarnaccia, le startup devono essere come Davide: con le loro piccole dimensioni e la loro struttura lean e flessibile, devono riuscire a vincere la loro “battaglia” contro la concorrenza grazie ad una buona strategia. Non si tratta, infatti, di dimensioni dell’azienda o di voci di bilancio: ciò che conta davvero è ciò che si fa e come lo si fa.

Da un punto di vista strategico, invece, spesso le startup puntano erroneamente a voler sopraffare i grandi colossi del mercato cercando di imitarli, ricadendo in una vera e propria trappola che li distrae dal vero obiettivo: capire cosa i clienti vogliono, di cosa hanno davvero bisogno.

Una grande azienda, spesso, man mano che cresce su larga scala perde di vista il focus sul cliente: una startup invece, potendo contare su una struttura più piccola e flessibile, dovrebbe concentrarsi proprio sul cliente e sulla sua soddisfazione, anziché sul cercare di imitare i concorrenti di grandi dimensioni.

Vediamo, quindi, i tre consigli che Guarnaccia offre alle startup per abbracciare e far fruttare il vantaggio competitivo derivante dall’essere dei “piccoli Davide”:

1) Rimanere concentrati sulla maniera distintiva in cui possiamo soddisfare il cliente 

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Quando le preferenze del cliente cambiano, una piccola azienda nata da poco riesce a cambiare rotta molto più facilmente di un grande colosso consolidato: la struttura è più snella, l’organigramma e la burocrazia sono meno pesanti. Una startup riesce a cambiare e ad innovare più facilmente ed è per questo che non deve mai perdere di vista le peculiarità che le permettono di soddisfare al massimo i bisogni della sua clientela.

Esempio: Zipcar – Il mercato è pieno di aziende che offrono macchine a noleggio su base giornaliera, ma Zipcar ha capito che molti clienti avevano bisogno di noleggiare un’auto ad ore. Offrendo questo servizio si è differenziata dai concorrenti, basandosi sulla maniera distintiva con cui poter soddisfare i clienti.

2) Domandarsi perché e come 

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Una startup (e, in generale, una piccola azienda) deve affrontare una sfida ben precisa: risolvere in maniera unica ed univoca il più grande problema del cliente. Ecco perché il primo passo è quello di capire qual è il problema da risolvere. Le domande da porsi a riguardo sono essenzialmente due: perché sto creando questo particolare prodotto/servizio? Come questo risolve il problema del mio cliente?

Queste due domande devono guidare l’intera attività di business: ciò significa allineare il team e condurlo il più possibile a contatto con il cliente. Dipendenti e clienti si allineeranno intorno al perché, rafforzando la capacità dell’azienda a trovare il come per raggiungere gli obiettivi di business.

Esempio: Zappos – L’azienda per la vendita on-line di scarpe è nota per la sua cultura aziendale e per la sua struttura piatta, in cui lo scopo è allineare le persone sul come e sul perché.

Rispetto al concorrente Amazon, Zappos rappresenta Davide: ma ciò che la contraddistingue e le consente di avere successo è il suo mettere il cliente al primo posto, concentrandosi sulla sperimentazione di nuovi approcci per soddisfare il cliente. I clienti di Zappos, ad esempio, non erano soddisfatti dalla politica di reso entro 30 giorni: per questo motivo, Zappos li ha accontentati offrendo una politica di reso a 365 giorni.

3) Creare una cultura di empowerment 

Businessman holding lightning in fist. Power and control

La creazione di una cultura aziendale forte è fondamentale e deve partire dai vertici aziendali: ne è un esempio lampante Bradley Tilden, CEO di Alaska Airlines. Nella sua compagnia aerea, Tilden ha creato una cultura aziendale in cui i dipendenti sono liberi di agire come ritengono più opportuno, senza dover sottostare al permesso di chi è più in alto in gerarchia.

Nelle grandi aziende Golia, i dipendenti diventano dei meri esecutori delle linee guida e delle politiche decise dall’alto. Una piccola startup Davide, invece, è in grado di non sottomettersi a questo tipo di cultura: questo rappresenta un grande vantaggio nella soluzione dei piccoli e grandi “intoppi” quotidiani.

Nel caso di Alaska Airlines, Guarnaccia racconta una sua esperienza diretta come cliente: per un errore della compagnia gli era stato prenotato il volo sbagliato e l’agente al banco check-in non gli ha fatto pagare la tassa per la nuova prenotazione. Molte compagnie aeree, in una situazione del genere, avrebbero fatto pagare al cliente un errore non suo a causa della politica aziendale.

Con la sua politica basata sull empowerment, invece, Tilden dimostra fiducia nei propri dipendenti consentendogli di lavorare in autonomia.

In conclusione, molte startup aspirano a diventare dei Golia: la realtà è che dovrebbero abbracciare i vantaggi derivanti dall’essere un piccolo Davide, potendosi permettere di costruire un prodotto/servizio che soddisfa realmente il cliente ed ispira i dipendenti a lavorare nella maniera migliore.

Per leggere il post originale: http://mashable.com/2015/07/01/startups-david-versus-goliath/#fWqaQpUifOqZ

Napoli, 07/10/2015

Startup Tips – Allineare Corporate Strategy, Product Strategy ed Execution per portare l’azienda al successo

Jim O’Leary è Vice Presidente del Product Management & Marketing per la Mitchell International, storica società californiana nel settore Software con sede a San Diego. Di recente, ha pubblicato attraverso LinkedIn un articolo molto interessante dedicato al tema della Corporate Strategy e dell’importanza di allineare la Product Strategy e l’Execution per il successo aziendale.

Il punto di partenza della sua analisi nasce dalla sua esperienza diretta nelle varie aziende in cui ha lavorato: in ognuna di esse, c’è un processo di Corporate Straqtegy ben definito, con modelli in PowerPoint e frameworks altisonanti provenienti dalla Harvard Business Review, che vengono discussi e stabiliti dal gruppo dirigente e poi condivisi con il resto dell’organizzazione. I piani di Corporate Strategy, infine, arrivano al team di Product Management e… vengono puntualmente ignorati!

O’Leary sottolinea che ciò accade non perché i responsabili di PM (Product Management) siano volontariamente disobbedienti: il fatto è che non esiste in azienda un processo per assicurarsi che la Corporate Strategy si traduca in Product Strategy e che quest’ultima venga poi effetivamente eseguita.

Per ovviare a questa situazione così diffusa, O’Leary assieme al suo team ha sviluppato e sta diffondendo una soluzione che potrebbe essere utile per risparmiare tempo e risorse, e che si presta ad essere affiancata ed inglobata con altri approcci alternativi.

Vediamo uno schema che riassume in generale la soluzione di O’Leary:

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Sharing the Corporate Strategy

Prima di tutto (come già accade in tutte le aziende) si condivide la Corporate Strategy con i Product Manager: a questo scopo, l’autore consiglia di utilizzare sessioni di gruppo interattive per piccoli team.

Product Portfolio Review Sessions

Per allineare gli investimenti di prodotto alla Corporate Strategy, O’Leary e il suo team hanno istituito delle sessioni dedicate al Product Portfolio Review ogni 10 settimane (cadenzate con il rilascio del prodotto). In queste sessioni, ci si assicura di:

– Revisionare lo stato di avanzamento di ciascun progetto di Product Development in corso (adattando le risorse se necessario),
– Selezionare i nuovi progetti da finanziare, in base alle loro potenzialità di promuovere la Corporate Strategy,
– Raccogliere gli input degli stakeholders più importanti per assicurarsi che tutti diano il proprio parere, in ordine di priorità.

PM Strategy Sessions

Per allineare l’execution delineata dal team di prodotto alla Corporate Strategy, O’Leary ha inoltre stabilito dei regolari incontri dedicati alla “PM Strategy”, da tenersi anch’essi ogni 10 settimane. Ecco come funziona ciascuna PM Strategy Session:

i Product Manager presentano i contenuti relativi a ciascuna linea di prodotto al capo e agli altri responsabili del PM & Marketing interessati a questa tipologia di informazioni;
a ciascuna linea di prodotto vengono dedicati circa 30 minuti, per poter presentare tutti gli aspetti e i dati in modo tale da offrire una visione completa dello stato attuale del prodotto, e dei futuri obiettivi da raggiungere. Le sessioni sono svolte in maniera molto interattiva, dando la possibilità di effettuare modifiche e aggiustamenti alle strategie in corso d’opera;
al termine delle presentazioni di ciascuna linea di prodotto, ogni PM identifica le strategie che potenzialmente vanno perseguite e le azioni che bisogna implementare per raggiungere i risultati desiderati (execution);
il PM stima inoltre i tempi necessari per implementare le azioni stabilite, basandosi su una stima dei tempi a disposizione. A questo punto, si preparano delle tabelle che riassumono i tempi, le azioni e gli obiettivi e che vengono esaminate con cadenza settimanale dal manager e dai dipendentri: ciò garantisce che la strategia e l’execution siano seguite quotidianamente;
in apertura della session successiva, saranno monitorate le azioni e gli obiettivi raggiunti: questa “revisione pubblica” dà grande motivazione a tutti i membri del team,
la PM session è infine indispensabile per identificare in maniera esplicita le strategie e le azioni più urgenti e quelle da tralasciare, in modo tale da ridurre al minimo la quantità di WIP (work in progress) e ottimizzare ulteriormente tempi e risorse.

PM Strategy Sessions – Metriche e Dati

Infine, O’Leary identifica i dati e le metriche fondamentali da passare in rassegna durante ciascuna PM Strategy Session:

1) Value Proposition del prodotto: è fondamentale che un Product Manager sia in grado di articolare la value proposition del suo prodotto in maniera interessante per i prospetti, i clienti, il team di vendita. Se al PM non è chiara la value proposition, infatti, si rischa di investire in capabilities di prodotto che non sono importanti per il mercato, e di veicolare messaggi che non sono efficaci. Con il tempo, l’azienda dovrebbe concentrarsi per allineare ciascuna value propsition di prodotto alla value proposition ae alla comunicazione dell’azienda in generale.

2) Fase del ciclo di vita del prodotto: identificare la fase del ciclo di vita in cui si trova ciascun prodotto è necessario per ottenere informazioni utili su cui basare le aspettative, i livelli di investimento, la quantità di risorse da spendere in marketing, etc. Molto spesso, infatti, il PM di un prodotto in fase di declino cerca di ottenere risorse aggiuntive per lo sviluppo, anzichè dedicarsi al contenimento dei costi (cosa che sarebbe più appropriata per un prodotto in fase di declino).

3) Feedback recenti raccolti dai clienti: che siano feedback raccolti in maniera diretta, o attraverso ricerche di mercato, riscontri positivi in termine di vendite, etc., si tratta di una possibilità per il PM di tenere traccia dei risultati ottenuti attraverso informazioni provenienti da varie fonti. Per il team di PM, inoltre, questo è il modo per essere più in contatto con il mercato.

4) Posizione del prodotto rispetto ai concorrenti sulla curva Prezzo-Performance: è fondamentale per capire il nostro prodotto (anche in termini di prezzo) rispetto a quelli della concorrenza. L’asse dei prezzi è relativamente semplice, mentre ottenere i dati per quella delle prestazioni è più complesso e si tratta di numeri difficili da misurare con precisione. In ogni caso, anche se le metriche di performance sono approssimate, la curva Prezzo-Performance rimane uno strumento indispensabile per il PM, che riesce a capire se il prezzo del nostro prodotto è quello più giusto rispetto a quello applicato dai concorrenti.

5) Obiettivi di Business annui per il prodotto: una volta identificata la fase di vita in cui si trova ciascun prodotto, bisogna definire ciò che significa “avere successo” per ciascun prodotto. Ciò vuol dire stabilire degli obiettivi adatti a ogni prodotto, a seconda delle sue specifiche caratteristiche.

6) Revenue Trend e Customer Trend: probabilmente la metrica più importante di tutte. Serve a capire se il prodotto è in crescita o è in calo.

7) Total Addressable Market (TAM): per quantificare se il prodotto è in un mercato che vale la pena perseguire, occorre osservare il gap tra il TAM e la quota di mercato stimata composta da “nostro fatturato + fatturato dei concorrenti”. In questo modo è possibile capire se ci sono opportunità di mercato non ancora sfruttate, o se l’azienda sta investendo troppo in un TAM in realtà basso. In questo modo è possibile fare degli aggiustamenti efficaci agli investimenti previsti per ciascuna linea di prodotto.

8) Margine di prodotto: presentato di solito con un grafico a cascata, aiuta a visualizzare quanto profitto viene generato da un prodotto e aiuta il team ad identificare le opportunità per migliorare la redditività riducendo i costi.

9) Andamento del Technical Support Case Volume nel tempo: l’indicatore in questione offre informazioni sul livello di soddisfazione dei clienti (i clienti soddisfatti non hanno bisogno di supporto tecnico) e identificano le opportunità per attuare modifiche migliorative al prodotto, abbassando così i costi di Technical Support.

Per leggere il post originale: https://www.linkedin.com/pulse/stop-ignoring-your-corporate-strategy-how-align-product-jim-o-leary

Napoli, 02/09/2015

Consigli per startup: i 10 ruoli essenziali per essere un buon CEO

Essere CEO e founder di una startup significa che una sola persona si trova a dover ricoprire molti ruoli differenti: ne sa qualcosa Alex Turnbull, CEO di Groove (helpdesk software per piccole imprese) e startupper seriale, che ha scritto un recente post sull’argomento intitolato “The 10 Essential Roles of a Startup CEO”.

In generale, Turnbull sostiene che ciascun membro del team di una startup (e, più in generale, di un’azienda) deve avere ben chiaro il proprio ruolo, le proprie responsabilità, le attività da svolgere. Inoltre, ciascuno deve imparare a fare il miglior uso possibile del tempo a propria disposizione: sembra tutto piuttosto ovvio, ma spesso nella realtà non è così semplice.

Questo discorso si complica ulteriormente nel caso del CEO, in quanto il suo ruolo comprende una serie di sfaccettature ed attività molto diverse tra loro, che bisogna imparare a far convivere e bilanciare. Nello specifico, Turnbull identifica 10 differenti ruoli che il CEO di una startup si trova a dover ricoprire:

1) Recruiter

Le startup hanno bisogno di un grande team, composto da persone straordinarie: quando si lavora come CEO di una startup in crescita, trovare le persone migliori da inserire nel team è un lavoro a tempo pieno.
Un buon CEO è in grado di identificare le figure di cui il team ha bisogno e di selezionare le persone più adatte a ricoprire tali ruoli.

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2) Cheerleader

Quando si costruisce qualcosa dal nulla, come accade in una startup, in alcuni momenti tutto sembrerà davvero difficile da superare. Il team, a volte, può cadere nella tentazione di mollare: è in momenti come questo che occorre essere più determinati possibile e il CEO ha il compito di mantenere alto il morale dell’intera squadra. Un team entusiasta di lavorare rappresenta infatti una delle basi fondamentali per costruire una startup di successo.
Ma, come specifica l’autore del post, per essere un buon CEO non basta sostenere il team nei momenti difficili: dare feedback positivi e riconoscere i meriti del buon lavoro svolto deve essere parte del lavoro del CEO di una startup ogni giorno.

3) Coach

I migliori CEO sanno essere dei grandi coach: sostengono il team e lo spingono verso il successo, aiutando a raggiungere gli obiettivi prefissati, a pianificare quelli futuri, a riallinearsi quando ci si trova fuori rotta.
Inoltre, il CEO deve essere in grado di fare un passo indietro quando gli obiettivi non vengono raggiunti, per osservare in maniera realistica cosa non è andato bene e come riorganizzare le attività da svolgere.

Come Coach, un buon CEO deve essere vicino al team e programmare regolarmente incontri one-to-one con ogni singolo membro della squadra: non è possibile allenare un grande giocatore se non si conoscono le sue competenze, obiettivi, sfide e preoccupazioni. Il compito di un buon CEO/Coach è conoscere tutti i membri del team meglio possibile.

4) Dealmaker

Le partnership possono essere un potente strumento per far crescere una startup: spesso, però, le aziende più grandi scelgono di collaborare con una startup soltanto attraverso un contatto diretto con il CEO.

Da questo punto di vista, il CEO deve essere capace di comunicare ai potenziali partner (così come si fa con clienti, investitori e dipendenti) la vision aziendale e i vantaggi della collaborazione con la propria startup.

5) Studente

Secondo Turnbull l’apprendimento è fondamentale: quando si smette di imparare, significa che si rimane fermi. Un CEO deve mantenersi sempre aggiornato, attraverso lo studio di libri, blog, advisors, e di tutte le risorse utili per conoscere al meglio il mercato di riferimento.

I migliori CEO di startup sono quelli che non hanno mai smesso di studiare, imparare, conoscere.

6) Firefighter

In una startup è inevitabile: ci saranno momenti di crisi. Un CEO deve essere sempre pronto ad intervenire, 24 ore su 24, 7 giorni su 7: proprio come i pompieri, sempre pronti a spegnere l’incendio e a capire come far sì che non accada la prossima volta.

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7) Strategist

Gran parte della giornata del CEO di una startup è dedicata alla parte strategica del business. In particolare, è importante analizzare gli scenari per stabilire la strategia a lungo termine dell’azienda (da 12 mesi a 5 anni), identificando gli obiettivi desiderati e le attività da implementare per raggiungerli.

8) Venditore

Fin dal primo giorno in cui l’idea sta nascendo, un CEO diventa venditore: tenta infatti di vendere la startup a potenziali investitori, clienti, partner, influencer, e a tutti coloro che possono aiutarlo a far crescere il business.
Secondo l’autore, quello di venditore è uno dei ruoli principali del CEO e rappresenta un’attività chiave.

9) Customer Support Champion

Se i clienti non sono soddisfatti, la startup non cresce. Ecco perchè, fin dal primo giorno, il CEO deve essere impegnato nel ruolo di Customer Support Champion, ascoltando le esigenze dei clienti mentre provano il primo prototipo di prodotto.

Ascoltare il cliente durante la fase di Product Development è essenziale per raccogliere i feedback, in modo tale da poter essere il portavoce dei clienti durante i successivi meeting aziendali.

Il lavoro di Customer Support di un CEO è importantissimo nelle prime fasi della startup, poi potrebbe rallentare, ma in ogni caso non dovrebbe mai fermarsi del tutto: ascoltare il cliente è una delle basi per raggiungere il successo.

10) Decider

Uno dei momenti più pericolosi per una startup è quando ci si ritrova a dover prendere una decisione e il team non può riunirsi: tutto rallenta, e una startup non può permettersi di perdere tempo.

In situazioni del genere deve intervenire il CEO, assumendosi la responsabilità di prendere le decisioni più rischiose e difficili: a volte potrà capitare di scontentare il team o i clienti, e sarà necessario risolvere i nuovi problemi creati dalla decisione stessa.

Ma il ruolo di decisore è per un CEO quello sicuramente più difficile e allo stesso tempo da cui trarre le maggiori soddisfazioni.

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Infine, Turnbull si concentra sulla necessità di trovare il giusto equilibrio tra i 10 ruoli elencati: è semplicemente impossibile eccellere in ciascuno dei 10. Ma capire che essere il CEO di una startup significa dover ricoprire ruoli diversi, e capire quali sono questi ruoli, rappresenta il primo passo per capire in cosa si è bravi e in cosa bisogna migliorare.

Il consiglio è quello di concentrarsi sui propri punti di forza, e di lavorare sui punti di debolezza per migliorare: qualora non sia possibile, è utile pensare di assumere qualcuno che possa ricoprire le attività a noi meno congeniali.

Il post originale è disponibile a questo link: https://www.groovehq.com/blog/startup-ceo-role?_hsenc=p2ANqtz-8iqWV4dVHV9oMtjlIS2dtN5i_jn-OmcoyhMglvYi8yXGsISdyt_dbCXnUmIPBkAMiU5DMHLmR7Yy_fN41nbeLAxJo-vA&_hsmi=20749075&utm_content=buffer14ffb&utm_medium=social&utm_source=twitter.com&utm_campaign=buffer

Napoli, 23/07/2015

Innovazione e metodologia Lean: dalle startup alle aziende consolidate, secondo Steve Blank

Negli ultimi 5 anni la metodologia Lean Startup ha permesso agli imprenditori di costruire startup di successo adoperandosi nella ricerca del product/market fit, piuttosto che nel lanciarsi “alla cieca” nelle attività di execution. Le aziende corporate che perseguono l’innovazione cercano un modo efficace per poter applicare i principi di Open Innovation, ma trovare una teoria unificata dell’innovazione, che sia adattabile alle esigenze di aziende corporate e, contemporaneamente, alle esigenze di sviluppo rapido di una startup non è decisamente un’impresa semplice. Ci ha provato Steve Blank, che racconta la sua esperienza e i risultati delle sue attività in un post pubblicato poche settimane fa nel suo blog.

Di recente, alcuni innovatori particolarmente coraggiosi hanno tentato di sovrapporre gli strumenti Lean e le tecniche che funzionano nelle startup ad aziende corporate ed enti governativi, ma i risultati sono stati deludenti, caotici e frustranti: in definitiva, fallimentari. Queste brevi esperienze si sono trasformate in una sorta di “Teatro dell’Innovazione”, fatto di grandi proclami e comunicati stampa, ma senza cambiamenti reali e sostanziali.

Lavorando in collaborazione con Greg Hannon, responsabile dell’Innovazione a W.L.Gore, Steve Blank ha rilevato due strumenti di corporate strategy sviluppati da persone smart che possono aiutare ad intersecare i principi di Lean Startup a quelli di Corporate Innovation:

Il primo è la nozione di “ambidextrous organization” (di O’Reilly e Tushman), secondo cui le aziende che vogliono fare innovazione devono lavorare su due binari paralleli: da un lato, continuare ad eseguire il core business aziendale, dall’altro, lavorare per l’innovazione.

La seconda grande idea per la corporate innovation è rappresentata dai “Three Horizons of Innovation”, identificati da Baghai, Coley e White. Secondo questa teoria, le aziende devono allocare le proprie innovazioni in una delle tre categorie coincidenti con altrettanti “Orizzonti”:

Horizon 1: business maturi
Horizon 2: business in rapida crescita
Horizon 3: business emergenti

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A ciascun orizzonte corrispondono focus, management, strumenti e obiettivi differenti.
I tre orizzonti forniscono una tassonomia incredibilmente utile, ma nella pratica sono utilizzati dalle aziende come una semplice schematizzazione incrementale dell’execution di un business model. In realtà, questo strumento consente di spiegare in un modo del tutto nuovo come funziona l’innovazione all’interno di un’azienda corporate.

Ecco, infatti, che Blank spiega come ottenere un’innovazione più rapida applicando gli strumenti tipici delle startup (Business Model Canvas, Customer Development, Agile Engineering) assieme alla metodologia Lean e, infine, come adattare il tutto alle necessità e peculiarità delle aziende corporate.

Punto di partenza di Blank saranno quindi i “Three Horizons of Innovation”, cui viene applicata la metodologia Lean. A questi sarà affiancato il concetto di “ambidextrous organization”, e il risultato sarà un metodo di sviluppo rapido per idee innovative all’interno di aziende già consolidate.

Applicando la metodologia Lean Startup ai “Three Horizons of Innovation”, il risultato sarà la riformulazione dei tre orizzonti nel modo seguente:

Horizon 1: attività a supporto di business model già esistenti
Horizon 2: focus sullo sviluppo di business esistenti attraverso business model parzialmente noti
Horizon 3: focus su business model sconosciuti

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Il primo orizzonte (Horizon 1) rappresenta il core business dell’azienda: qui, quest’ultima si concentra nell’execution di un business model noto (sono conosciuti i clienti, le caratteristiche di prodotto, il pricing, i canali distributivi, la supply chain, etc). Nell’Horizon 1, l’azienda utilizza capacità e competenze esistenti in attività a basso rischio. Questo tipo di gestione funziona quando esistono processi ripetibili e scalabili, dove e possibile identificare procedure, metriche, KPI per l’execution e misurare i risultati del business.

Nel secondo orizzonte (Horizon 2), l’azienda estende il suo core business cercando nuove opportunità per il suo modello di business (ad esempio, canali di distribuzione differenti, nuovi clienti che utilizzano lo stesso prodotto, nuovi prodotti da vendere ai clienti esistenti, etc). In questo caso, si utilizzano per la maggior parte delle attività capacità e competenze già esistenti in azienda e le attività presentano ancora un livello di rischio moderato. La gestione in caso di Horizon 2 rappresenta quindi una sperimentazione all’interno del business model esitente.

Il terzo orizzonte (Horizon 3) è quello in cui le aziende mettono a lavorare gli “imprenditori folli”, quelli che in una startup sono solitamente rappresentati dal CEO. Si tratta di innovatori che vogliono sperimentare nuovi e rischiosi modelli di business: in questo caso, l’azienda corporate è in una situazione molto simile a quella in cui si trova una startup in fase di incubazione. In questo orizzonte, gli “imprenditori folli” operano con grande rapidità allo scopo di trovare un business model ripetibile e scalabile. I team che lavorano a questi progetti devono essere fisicamente separati dalle divisioni operative dell’azienda (ad esempio in un incubatore d’impresa) e hanno bisogno di piani, procedure, politiche, KPI differenti rispetto a quelli utilizzati nell’Horizon 1. Inoltre, per questo tipo di progetti, bisogna prevedere team di piccole dimensioni (meno di 5 componenti) che devono confrontarsi con almeno 100 persone in 10 settimane, iterando e modificando il prodotto in base ai feedback ricevuti. Date le piccole dimensioni dei team e le scarse spese di gestione, un’azienda corporate può mettere in atto più progetti in parallelo a livello di Horizon 3.

In ogni caso, le attività svolte sugli Horizon 2 e 3 non devono mai essere totalmente distaccate dalla struttura aziendale: ecco perchè è indispensabile che i manager delle attività implementate a livello di Horizon 1 siano in costante contatto e di supporto a chi lavora alle attività a livello degli altri due Horizon.

Ma cosa accade alle innovazioni sviluppate a livello degli Horizon 2 e 3? Blank spiega che lo scopo finale è che queste vengano adottate a livello di Horizon 1, a meno che non raggiungano una dimensione talmente rilevante da poter diventare un’organizzazione autonoma, o da poter essere venduta all’esterno.

Nel caso in cui un’azienda corporate si trovi a gestire numerosi progetti a livello di Horizon 2 e 3, entra in gioco inesorabilmente il concetto di “ambidextrous organization”: i progetti innovativi devono essere sviluppati in parallelo con il business model centrale, che serve i clienti già esistenti. Per ottenere questo tipo di scenario, è fondamentale che i manager condividano un intento strategico, una vision e dei valori comuni: inoltre, la parallela esecuzione delle attività dei tre orizzonti richiedere una grande capacità di gestione e risoluzione dei conflitti.

Per leggere il post originale: http://steveblank.com/2015/06/26/lean-innovation-management-making-corporate-innovation-work/

Napoli, 15/07/2015

L’ecosistema startup in Europa: nuove opportunità di sviluppo e crescita, grazie a regole chiare e condivise

Andrus Ansip è l’attuale vicepresidente della Commissione Europea e ha pubblicato nei giorni scorsi nel suo blog un post attraverso il quale lancia il suo piano per far crescere l’Unione Europea, concentrandosi sulle potenzialità di sviluppo offerte dalle startup e sulle tematiche del lavoro, del mercato e del digitale.

Gli ecosistemi startup locali sono infatti uno dei punti fissi nei viaggi che Ansip effettua tra gli Stati Membri UE: secondo l’autore del blog, si tratta di luoghi in cui è possibile imparare molto, grazie alle caratteristiche di dinamismo, immaginazione e grinta che li permeano. Le startup, inoltre, hanno delle peculiarità importanti in termini di crescita commerciale e sviluppo: avviare e far crescere un’azienda “tradizionale” è un conto, ma far nascere e portare al successo una startup basata su un’idea e un mercato innovativi è una sfida completamente differente.

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Ansip ritiene, quindi, che le startup rappresentino un grande punto di partenza in termini di opportunità di sviluppo e di ripartenza per l’Europa, ed è proprio per questo che l’UE ha lanciato lo Startup Europe Programme. Scopo dello Startup Europe Programme è quello di rafforzare il contesto imprenditoriale nel settore Web e ICT, facilitando il percorso di nascita e sviluppo di idee di impresa innovative.

Un altro importante strumento a livello comunitario è rappresentato dallo Startup Europe Club, una vera e propria rete che connetterà i vari ecosistemi innovativi d’Europa contribuendo a colmare il gap tra investitori, imprese e startup.
Lo Startup Europe Club è stato lanciato il 2 luglio, durante l’evento londinese “Accelerators Assembly”, e dovrà servire come un “information hub” per chiunque voglia connettersi alla scena startup europea.

Il portale Startup Europe Club è definito da Ansip come un vero e proprio gateway in grado di aiutare le startup su differenti fronti: trovare dipendenti qualificati in qualsiasi area dell’Unione Europea, accedere alle migliori opportunità di finanziamento, riuscire a crescere anche a livello internazionale grazie alle infrastrutture a disposizione.

Ancora, il mese scorso si è tenuta a Bruxelles la “European Young Innovators Unconvention”: un’occasione di incontro e confronto tra giovani innovatori ricchi di spirito imprenditoriale, che hanno discusso le tematiche chiave per implementare una strategia digitale per il mercato unico e per la comunità startup europea.

La Digital Single Market Strategy dell’UE dovrà basarsi su una serie di regole condivise, incentrate sulla semplificazione e l’ammodernamento del sistema, per rendere più agevole lo sviluppo commerciale delle startup. Grazie ad una normativa comune, sarà più semplice per le startup espandersi in maniera rapida e offrire servizi migliori ai clienti.

L’interoperabilità sarà garantita inoltre da soluzioni di e-government e piattaforme create ad hoc per facilitare il lavoro delle nuove imprese innovative. Ancora, l’Unione Europea sta lavorando per attirare maggiori quantità di capitali di rischi nel proprio territorio di riferimento, cercando al contempo di migliorare l’accessibilità ai finanziamenti per le imprese europee e le startup in particolare.

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Il mercato unico europeo delle startup, secondo Ansip, sarà un obiettivo raggiungibile grazie a regole chiare e condivise, che renderanno più facili gli investimenti internazionali, le assunzioni di personale tra diversi paesi, la ripartenza a seguito di eventuali fallimenti, etc.

Il post originale dal blog di Andrus Ansip è disponibile qui: https://ec.europa.eu/commission/2014-2019/ansip/blog/linking-europes-startup-networks-helping-them-grow-across-borders_en

Napoli, 14/07/2015

Consigli per startup: i tre step indispensabili da implementare prima del lancio sul mercato

Il portale Ready Set Startup offre una serie di spunti e consigli interessanti per startupper ed aspiranti imprenditori che vogliono iniziare un nuovo business: in particolare, in questo post vedremo i suggerimenti più utili contenuti in una serie di tre articoli dedicati al tema “Steps To Starting a Business”.

Secondo Susan Jones, autrice dei tre articoli, ci sono tre step di base da seguire quando si inizia una nuova attività di impresa:

1) Finding and developing an idea,
2) Testing the idea to see if people will pay for it
3) Planning how you will implement

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Portare a compimento questi tre step prima di lanciare il business offre maggiori possibilità di raggiungere il successo di una startup. Vediamo più nel dettaglio in cosa consiste ciascuno step:

1) Individuare e sviluppare l’idea rappresenta, ovviamente, il primo passaggio per fondare una startup: sembra scontato, ma in realtà sono molti gli aspiranti startupper che si avvicinano alle primissime fasi di attività con un’idea non focalizzata.
L’obiettivo finale di questo primo step è quello di avere ben chiaro il problema che si vuole risolvere, chi sono i clienti e quale soluzione gli si offre. Quanto più chiaramente si riesce a rispondere a queste domande, tanto meglio sarà possibile affrontare la pianificazione e la ricerca necessarie a lanciare la startup sul mercato, aumentando le possibilità di successo del business.

La questione cruciale da risolvere per superare il primo step è la seguente: “Quale problema stiamo cercando di risolvere?”
Gli imprenditori, infatti, sono pagati per risolvere un problema: se le persone possono risolverlo da sole, non sono disposte a pagare qualcun altro per farlo. Essere il più chiari possibili sul problema che si vuole risolvere aiuta a svolgere al meglio le attività di product design, preparandosi ad offrire un prodotto/servizio che i clienti vorranno davvero acquistare.
Quando il problema è ben definito, si può capire qual è la ragione di base per la quale i clienti decidono di acquistare il prodotto: si tratta di un aspetto fondamentale per facilitare le attività successive di acquisizione clienti, consentendo alla startup di risparmiare tempo, denaro, risorse.

2) Una volta identificato il problema e trovata una soluzione da offrire ai clienti, la domanda da porsi per lo step successivo è: “Chi è disposto a pagare per il mio prodotto/servizio?”.
Prima di investire troppo tempo e denaro in una startup, infatti, bisogna affrontare la fase di testing per capire se esiste un mercato abbastanza ampio per il nostro prodotto.

Il miglior modo in assoluto per testare un prodotto è chiedere alle persone di comprarlo: tuttavia, non sempre è possibile testare la propria business idea attraverso le vendite. Ecco perchè esistono altre possibili attività di testing che permettono ad una startup di capire se il suo prodotto può essere vincente.

Qualsiasi siano gli strumenti di testing che si sceglie di implementare, bisogna sempre tener presente che i migliori risultati si ottengono raccogliendo più dati ed informazioni possibili.
E se i primi test danno risultati negativi, è possibile tornare indietro e trovare nuove soluzioni da offrire, o un problema differente da risolvere.

3) Il terzo e ultimo step si basa su due momenti chiave: planning e action.
La pianificazione è fondamentale per un’attività di impresa, in quanto consente al team di sapere giorno per giorno quali sono le attività da implementare e i risultati da raggiungere: senza una destinazione ed un piano, non si può andare da nessuna parte.

Una corretta pianificazione dei passi da compiere per raggiungere obiettivi e risultati predefiniti consente di ridurre al minimo i rischi insiti in qualsiasi attività di business: contrariamente a quanto si possa pensare, infatti, i migliori imprenditori non sono dei “risk takers”, ma sono coloro che lavorano sodo in termini di planning e ricerca per ottenere le più elevate probabilità di successo possibili.

Una corretta pianificazione tiene conto dei possibili problemi che potranno presentarsi in futuro: pensare strategicamente consente di ottenere un vantaggio competitivo rispetto alla concorrenza. Inoltre, riduce la possibilità di errori che potrebbero essere decisamente costosi per la startup, in quanto le modifiche sono più difficili da implementare quando il lancio sul mercato è ormai già effettuato.

Infine, la vera differenza tra successo e fallimento può essere rappresentata dall’azione vera e propria: da questo punto di vista, il documento più importante è rappresentato da un buon business plan. Il business plan rappresenta una vera e propria mappa per la startup e consente di avere ben chiaro sia le azioni da implementare che la direzione verso cui ci si sta muovendo.

Di seguito, pubblichiamo la mappa concettuale dei tre step per lanciare una startup pubblicata dal portale Ready Set Startup:

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FONTI:

Napoli, 07/07/2015

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