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Tag: dati

Value Creation e Value Capture: come cambia il Business Model di una startup con la diffusione dell’Internet of Things?

In un interessante post pubblicato dal Network Blog della Harvard Business Review, Gordon Hui (leader della Business Design & Strategy per la società di consulenza americana SmartDesign) ha approfondito un tema interessante per startup e imprese innovative: le implicazioni sul Business Model causate della crescente diffusione dell’Internet of Things.

Le implicazioni e le nuove opportunità offerte dall’IoT e dalle soluzioni cloud-based ad esso correlate sono infatti di rilevanza fondamentale per le nuove imprese, in particolare in tema di value creation (creazione del valore) e value capture (monetizzazione del valore): è risaputo, infatti, che la creazione di valore rappresenta il cuore di qualsiasi Business Model, in quanto coinvolge tutte le attività fondamentali di un’azienda ed è la motivazione alla base delle decisioni di acquisto del cliente.

Nelle aziende tradizionali, creare valore significava individuare le esigenze durature del cliente e produrre sulla base di queste delle soluzioni di prodotto altamente progettate e, nella maggior parte dei casi, standardizzate.
Le aziende moderne, invece, devono fare i conti con l’innovazione continua ed incrementale e con le sue conseguenze: cambiano infatti gli aspetti relativi alla concorrenza (che cambia e cresce in maniera più rapida rispetto al passato) e si accorcia la vita dei prodotti, che diventano più rapidamente obsoleti.

In un mondo connesso e internet-based, i prodotti non sono più fatti per durare nel tempo: grazie agli aggiornamenti on-line, è possibile inviare al cliente con regolarità nuovi aggiornamenti e nuove funzioni/caratteristiche, è possibile rispondere al comportamento dei clienti in tempo reale grazie alla tracciabilità dei prodotti e, soprattutto, i prodotti possono essere connessi tra loro portando a nuove analisi previsionali più efficienti, ad un’ottimizzazione dei prodotti più efficace, a nuove user experience personalizzate.

Albert Shun, Partner Direct di UX Design per Microsoft, osserva: “I business model riguardano la creazione di esperienze di valore. E con l’Internet of Things, si può davvero capire come un cliente vive un’esperienza, che sia entrare in un negozio, acquistare un prodotto o usarlo, e infine capire cos’altro è possibile fare con quel prodotto/servizio. E’ possibile rinnovare l’esperienza, dargli nuova vita”.

Così come per la creazione di valore, il cloud impone un nuovo modo di approcciarsi anche alla monetizzazione del valore per il cliente.
Nella maggior parte delle aziende tradizionali, la monetizzazione del valore richiedeva semplicemente di fissare il prezzo giusto per ottenere il massimo dei profitti dalla vendita di un determinato prodotto. I margini vengono massimizzati in base alle principali leve dell’azienda, che stabiliscono il controllo su alcuni punti chiave della catena del valore (costi delle materie prime, brevetti, brand).

Vediamo quindi, in maniera schematica, come cambia la concezione del Business Model nelle attività di value creation e value capture con l’avvento dell’Internet of Things:

VALUE CREATION

Bisogni del cliente: nelle aziende tradizionali, si risolvono i problemi del cliente in maniera reattiva. Con l’IoT le esigenze e i bisogni vengono rilevati in tempo reale o ancora in fase emergente, con un approccio predittivo.

Offerta: per le aziende tradizionali, l’offerta consiste in un prodotto che viene immesso sul mercato e resta uguale finché il tempo lo renderà obsoleto e sarà necessario costruire un nuovo prodotto. L’avvento dell’Internet of Things permette di aggiornare continuamente il prodotto e di creare delle sinergie di valore attraverso la connessione ad altri prodotti.

Ruolo dei dati: nelle aziende tradizionali i dati venivano raccolti ed utilizzati per i futuri prodotti, mentre oggi le informazioni provengono da più fonti e convergono creando esperienze utili per aggiornare i prodotti attualmente sul mercato o aggiungere ad essi funzionalità e servizi.

VALUE CAPTURE

Path of Profit: nelle aziende tradizionali, il profitto cambia quando si vende sul mercato un nuovo prodotto o servizio. Gli aggiornamenti possibili grazie all’IoT offrono la possibilità di generare profitto attraverso entrate ricorrenti, che non dipendono necessariamente da nuove vendite.

Punti di Controllo: nelle aziende tradizionali è possibile controllare vari punti/livelli della catena del valore, mentre grazie all’Internet of Things si creano prodotti personalizzati e basati sul contesto (effetti del network sui prodotti).

Sviluppo delle Competenze: le aziende tradizionali utilizzano come leva per il profitto le core competences, le risorse e i processi già esistenti. Grazie all’avvento dell’IoT è possibile capire quali sono eventuali partner presenti nell’ecosistema di riferimento per aumentare i profitti dell’azienda.

In conclusione, con l’avvento dell’Internet of Things si ribalta la visione tradizionale delle aziende product-based: mentre per queste ultime le fonti di reddito possibili sono incentrate sulle vendite di nuovi prodotti, l’attuale situazione permette di aumentare le fonti di reddito, allargandole ad eventuali aggiornamenti, up-dates e personalizzazioni.

Il Business Model deve tenere in considerazione questa situazione, mettendo al centro ciò che consente di generare ricavi correnti: in caso contrario, come afferma Renee DiResta (O’Reilly AlphaTech Ventures), la startup baserebbe il proprio sviluppo sulla speranza che i clienti sviluppino una tale fedeltà al brand da acquistare anche un secondo prodotto presso l’azienda.

Altro aspetto fondamentale di cui tener conto nel Business Model è quello delle opportunità di partnership offerte dallo sviluppo dell’IoT: oggi, come afferma Zach Supalla (CEO della piattaforma open source Spark), non è più possibile pensare ad un’azienda “solitaria”, che agisce in un mercato “vuoto”. Una startup deve pensare non soltanto a come monetizzerà i propri profitti, ma anche a come il prodotto permetterà ad altri di generare e monetizzare valore.

Infine, l’autore evidenzia come la scelta tra una delle strategie competitive “tradizionali” identificate da Michael Porter (differenziazione, leadership di costo, focus) non sia più un approccio adatto alle startup e alle imprese che si muovono in settori in cui si fa strada l’Internet of Things: oggi, le tre strategie non si escludono automaticamente l’una con l’altra, ma possono essere utilizzate in maniera congiunta, rafforzandosi reciprocamente e migliorando i risultati in termini di value creation e value capture.

Per saperne di più, il post originale di Gordon Hui è disponibile al seguente link: http://blogs.hbr.org/2014/07/how-the-internet-of-things-changes-business-models/

Napoli, 05/08/2014

Decreto Cultura e Turismo: misure e disposizioni interessanti per startup e imprese innovative

E’ stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale (n. 175 del 30/07/2014) il testo della Legge n. 106/2014, che ha convertito in legge il Decreto Cultura e Turismo (n. 83/2014). Tra le disposizioni contenute nella legge, in vigore dal 31/07/2014, anche alcuni spunti interessanti per startup e imprese innovative (in particolare, in riferimento agli art. 9 e 11 bis).

Il Decreto Cultura e Turismo contiene una serie di misure finalizzate al rilancio e alla tutela del patrimonio culturale, artistico e paesaggistico nazionale, finalizzate a migliorare il livello di competitività nel settore turismo per il nostro Paese a livello internazionale: la legge prevede, ad esempio, l’Art-Bonus (credito di imposta per donazioni a sostegno della cultura), le misure di semplificazione relative al Grande Progetto Pompei e alcune disposizioni per la crescita del settore cinematografico e audiovisivo.

Tra le misure interessanti in tema startup, la conversione in legge del Decreto ha introdotto il nuovo articolo 11 bis, dedicato alle startup innovative nel settore turistico: secondo il comma 1, “si considerano startup innovative anche le società che abbiano come oggetto sociale la promozione dell’offerta turistica nazionale attraverso l’uso di tecnologie e lo sviluppo di software originali, in particolare, agendo attraverso la predisposizione di servizi rivolti alle imprese turistiche“.

La normativa sulle startup innovative prevista dall’art. 25 del Decreto Sviluppo bis (n. 179/2012) va quindi estesa anche alle nuove “startup turismo”, che dovranno svolgere servizi della seguente tipologia:

formazione del titolare e del personale dipendente;
costituzione e associazione di imprese turistiche e culturali, strutture museali, agenzie di viaggio al dettaglio, uffici turistici di informazione e accoglienza per il turista e tour operator di autotrasporto;
– offerta di servizi centralizzati di prenotazione in qualsiasi forma, compresi sistemi telematici e banche di dati in convenzione con agenzie di viaggio o tour operator, la raccolta, l’organizzazione, la razionalizzazione e l’elaborazione statistica dei dati relativi al movimento turistico;
elaborazione e sviluppo di applicazioni web che consentano di mettere in relazione aspetti turistici culturali e di intrattenimento nel territorio e lo svolgimento di attività conoscitive, promozionali e di commercializzazione dell’offerta turistica nazionale, in forma di servizi di incoming ovvero di accoglienza di turisti nel territorio, attivando anche nuovi canali di distribuzione.

L’art. 11 bis offre anche alcune specificazioni riguardanti la forma societaria delle startup turistiche: possono costituirsi in forma di SrlS (società a responsabilità limitata semplificata) e, in questo caso, saranno esenti da imposta di registro, diritti erariali e tasse di concessione governativa (qualora i soci siano persone fisiche che non abbiano ancora compiuto 40 anni all’atto di costituzione della società).

Infine, l’ultimo comma dell’art. 11 bis specifica che la normativa sulle startup innovative nel turismo si applicherà a decorrere dal 1° gennaio 2015.

Di particolare interesse per startup e imprese innovative, in particolare per quelle operanti in campo digitale, è anche l’art. 9 del Decreto Cultura e Turismo, contenente “disposizioni urgenti recanti introduzione di un credito d’imposta per la digitalizzazione degli esercizi ricettivi“.

Si tratta di una possibilità offerta a esercizi ricettivi (singoli o aggregati con servizi extra-ricettivi o ancellari), nonchè ad agenzie di viaggi e tour operator (appartenenti ai Cluster 10 e 11 previsti dal Decreto n. 303/2012 del Ministero dell’Economia e delle Finanze): l’agevolazione consiste in un credito d’imposta del 30% sui costi sostenuti per spese e investimenti in digitalizzazione fino ad un importo massimo complessivo di 12.500 €. Il credito d’imposta dovrà essere calcolato su investimenti relativi i periodi di imposta 2014, 2015 e 2016.

Le spese ammissibili al credito d’imposta per la digitalizzazione dovranno riguardare le spese elencate al comma 2 dell’art. 9, in particolare:

a) impianti wi-fi;
b) siti web ottimizzati per il mobile;
c) programmi e sistemi informatici per la vendita diretta, che siano in grado di garantire gli standard di interoperabilità con i portali di promozione pubblici e privati, al fine di favorire l’integrazione;
d) pubblicità, promozione e commercializzazione su siti e piattaforme informatiche specializzate;
e) servizi di consulenza per la comunicazione e il marketing digitale;
f) strumenti di promozione digitale in tema di inclusione e ospitalità per persone con disabilità;
g) formazione del titolare o del personale dipendente.

Il credito d’imposta per la digitalizzazione delle imprese turistiche sarà ulteriormente specificato (in termini di tipologie di spese ammissibili, procedure, etc.) attraverso un apposito Decreto del MIBAC di concerto con il MISE e il Ministero dell’Economia e delle Finanze.

Per maggiori informazioni e dettagli, il testo integrale del Decreto Cultura e Turismo, integrato con le modifiche della Legge di Conversione, è disponibile al seguente link: http://www.serviziparlamentari.com/index.php?option=com_mtree&task=att_download&link_id=4204&cf_id=70

Napoli, 01/08/2014

Data Pioneers Startup Competition 2014: le migliori idee innovative data-based ai Data Days di Berlino

Anche quest’anno Berlino ospiterà, nei giorni 1 e 2 ottobre, i Data Days 2014: una conferenza internazionale (in lingua inglese) organizzata da nugg.ad, società di digital marketing di Deutsche Post DHL dedicata ai più recenti trend nel mondo dei dati e al loro impatto sulla società.

La seconda edizione dei Data Days berlinesi ha un focus particolarmente incentrato sulle startup: nella due giorni di conferenze si alterneranno grandi speaker internazionali per seminari e workshop sugli aspetti più importanti relativi alla gestione, organizzazione e ottimizzazione dei dati. L’evento, inoltre, rappresenta un’interessante occasione di networking a livello internazionale per i suoi partecipanti.

Nell’ambito dei Data Days 2014, nugg.ad ha lanciato la call per la Data Pioneers Startup Competition: dedicata alle migliori startup con idee e progetti innovativi di business basate sull’utilizzo dei dati, Data Pioneer 2014 offre l’opportunità alla startup vincitrice di entrare a far parte dell’ecosistema di nugg.ad (con un supporto sia finanziario che in termini di expertise).

Per partecipare alla call di Data Pioneers Startup Competition 2014, occorre inviare un abstract del progetto all’indirizzo e-mail pioneers@data-days.com entro il 1° settembre 2014: è preferibile allegare all’abstract della documentazione dettagliata e un business plan.

Tra tutti i progetti pervenuti, saranno selezionati i finalisti che presenzieranno ai Data Days 2014: nella giornata del 2 ottobre i finalisti presenteranno i propri progetti data-based di fronte alla Giuria (ciascun team avrà a disposizione 10/15 minuti).
I migliori tre progetti, scelti dalla Giuria dei Data Days, entreranno a far parte del “Promotion Programme”.

Il Promotion Programme è il percorso di incubazione per startup di nugg.ad, che offre possibilità di finanziamento fino a 100.000 euro, la possibilità di entrare a far parte di un network internazionale di esperti, partner, media e il supporto di un team di oltre venti mentor esperti in svariate aree di interesse per i business innovativi (aspetti tecnici, legali, di marketing, etc.).

Per maggiori dettagli, il Regolamento di Data Pioneers 2014 è disponibile qui: http://www.data-days.com/data_pioneers_factsheet_2014.pdf

Per saperne di più sui Data Days 2014 (Berlino, 1-2 ottobre): http://www.data-days.com/

Napoli, 23/07/2014

Social media, brand, influencer e metriche: alcuni consigli per startup e imprese alle prese con le campagne di marketing

Il marketing delle startup e delle nuove imprese si basa in larga parte su campagne social: a differenza di quanto accadeva in passato, quando le campagne di marketing erano incentrate su media “tradizionali” come la stampa, la TV, la radio, i volantini, i manifesti e i cartelloni pubblicitari, le campagne di social media marketing danno la possibilità alle aziende di misurare i risultati ottenuti, a patto di saper utilizzare correttamente i dati e le metriche.

Sull’argomento delle metriche per la misurazione dei risultati di una campagna di social media marketing, Danny Brown (autore di interessanti testi tra cui “Influence Marketing: How to Create, Manage and Measure Brand Influencers in Social Media Marketing” e “The Parables of Business“) ha pubblicato di recente un interessante post sul suo blog dal titolo “Six Easy Metrics to Measure an Influence Marketing Campaign”.

I social media hanno cambiato totalmente le attività di misurazione degli effetti di una campagna di marketing: hanno reso infatti possibile ottenere campagne estremamente mirate, e le piattaforme consentono di misurare i contenuti e le connessioni garantendo un elevato ROI. Per questi motivi, afferma Brown, i social media sono diventati uno strumento imprescindibile per qualsiasi imprenditore “smart”.

I due parametri fondamentali che Brown utilizza per misurare l’influenza di una campagna di marketing sono: Brand Metric e Influence Metric. Per ciascun parametro occorre misurare e analizzare elementi differenti.

BRAND METRIC

Innanzitutto occorre misurare la metrica “Investment”, ossia il costo pre-campagna per la ricerca degli influencer da raggiungere. Il primo passaggio fondamentale è quello di identificazione di Micro e Macro Influencer, poi bisogna stabilire quanto costa portare a compimento l’intera campagna e utilizzare tali valori come un vero e proprio “barometro” per capire il ritorno (in termini finanziari e di consapevolezza del brand) che la campagna ha ottenuto.

La seconda metrica è quella definita dall’autore come “Resources”, che si differenzia dalla precedente perchè non è finalizzata su aspetti essenzialmente monetari bensì sui costi in termini di lavoro e formazione (quanti dipendenti sono necessari e per quante ore, quanto tempo occorre per raggiungere ed informare ciascun influencer riguardo al brand, al prodotto e alla mission aziendale).

Terza e ultima metrica da considerare per la Brand Metric è il costo definito da Brown “Product”: per una campagna di brand marketing efficace, occorre infatti offrire al pubblico e agli influencer la possibilità di testare il prodotto. L’azienda deve quindi predisporre dei campioni gratuiti di prodotto, o delle demo (in caso di software). L’azienda deve quindi tenere in considerazione i costi di questi prodotti “di prova”, compresi eventuali costi sostenuti per inviare i campioni agli influencer.

INFLUENCER METRIC

Anche in questo caso, possiamo suddividere la metrica in tre aree chiave: la prima di queste è definita dall’autore “Ratio”, e riguarda la misurazione delle reazioni degli influencer alla campagna in termini qualitativi. Porre l’accento sull’aspetto qualitativo è fondamentale per ottenere informazioni utili all’azienda, soprattutto quando la community di riferimento è molto numerosa e si rischia di disperdere i risultati in un database tanto ampio quanto sterile.

Un altro aspetto da tenere in considerazione è quello chiamato da Brown “Sentiment”, che riguarda la percezione della campagna da parte del pubblico. Le metriche relative alla percezione consentono all’azienda di capire come il target percepisce il messaggio della campagna, il prodotto, il brand nel suo complesso. Inoltre, può essere di grande aiuto per identificare quali parti del messaggio modificare e a quali target rivolgersi in futuro.

Infine, Brown analizza la metrica “Effect”: ciò che definisce il barometro più prezioso per indicare se la campagna ha funzionato o meno, rappresentato dagli effetti che il messaggio ha comportato negli influencer.
Per misurare gli effetti è possibile lavorare innanzitutto in termini di consapevolezza del brand: tra gli aspetti da monitorare, ritroviamo il traffico generato dalla pagina web, quante volte il marchio o il prodotto è stato menzionato, quanti nuovi fan o seguaci la nostra pagina ha raggiunto sui social network, quanti nuovi iscritti alla newsletter o al blog.

L’articolo di Brown si conclude con alcune linee guida su come utilizzare le metriche una volta raccolti i dati: le informazioni ottenute vanno infatti analizzate e monitorate per essere davvero utili al business. Secondo l’autore, a questo punto tutto dipende dagli aspetti che interessano all’azienda.

E’ possibile che l’azienda sia maggiormente interessata alla consapevolezza del brand: in tal caso investirà maggiormente nelle piattaforme da cui è stato ottenuto il maggior ritorno, e nel frattempo si impegnerà a capire quali sono le nuove piattaforme in cui è possibile investire in futuro.

Ancora, è possibile che l’azienda sia interessata soprattutto ad incrementare le vendite: in tal caso i dati risultanti dalla campagna di social marketing saranno utilizzati per la costituzione di partnership strategiche sulla base degli interessi, delle esigenze e delle connessioni degli influencer.

In ogni caso, il consiglio è quello di determinare accuratamente l’obiettivo finale per tracciare un percorso che identifichi le tappe e le relative metriche da utilizzare, in modo tale da ottenere i migliori risultati da ciascuna campagna di social media marketing.

Per leggere il post originale: http://dannybrown.me/2014/06/03/six-easy-metrics-to-measure-an-influence-marketing-campaign/

Napoli, 16/07/2014

Il test di prodotto: come ottenere i feedback più utili per una startup fin dalla fase di prototipazione?

Trovare la strada migliore per raggiungere il successo con la propria startup non è sicuramente prevedibile, ma ci sono alcune attività che i founder dovrebbero mettere in pratica per contribuire ad aumentare le possibilità di crescita della propria azienda, anziché quelle di incorrere in un fallimento. Tra queste, una delle principali attività utili alle startup è quella dei test di prodotto.

Recentemente su Entrepreneur è stato pubblicato un contributo di JD Albert (Director of Engineering presso Bresslergroup, società di Philadelphia specializzata in innovazione e accelerazione di imprese) dedicata proprio al tema dei test di prodotto, e a quanto una buona strategia informale basata sul testing possa essere utile per risparmiare tempo e denaro rispetto a ricerche che possono costare anche decine di migliaia di dollari.

Una ricerca informale basata sul testing può infatti essere effettuata prima di una ricerca formale, in quanto risulta essere meno impegnativa e più snella. Albert offre quindi alcuni consigli e spunti interessanti per le startup alle prese con i test di prodotto:

1. Il prototipo deve essere pronto prima possibile.

Aspettare fino ad avere un prototipo di prodotto perfetto da testare è un errore piuttosto comune per le startup, dettato probabilmente dal timore di essere giudicati: in realtà, bisogna fare un vero e proprio “scatto” mentale e capire che testare un prototipo prima possibile consente di risparmiarsi parecchie critiche in seguito, quando tra l’altro sarà molto più costoso apportare delle modifiche.

La cosa migliore da fare è mettere il prototipo tra le mani delle persone, osservare le reazioni ed imparare dai feedback dei clienti, che spesso possono fornire informazioni inaspettate e a maggior ragione utili.

2. Iniziare con un network di contatti già esistenti.

I primi tester per il prodotto di una startup vanno reclutati tra le persone più vicine e facilmente raggiungibili: amici, parenti, contatti on-line. In quest’ottica, i social media rappresentano una grande opportunità per entrare in contatto e ottenere la collaborazione di un gruppo di potenziali clienti fin dalla fase early stage (ad esempio, i social media consentono piuttosto facilmente di effettuare un primo test su un campione di 100 persone).

Anche le piattaforme on-line come Kickstarter e Indiegogo possono rappresentare uno strumento utilissimo per testare un prototipo di prodotto e trovare supporto per il proprio progetto.
Queste piattaforme mettono la startup in comunicazione con un vasto pubblico di early adopter che non vedono l’ora di poter dare il proprio feedback.
L’autore cita a tale proposito il libro di Hardi Maybaum “The Art of Product Design: Changing How Things Get Made”, secondo cui l’idea di open engineering è la strada migliore per abbattere le barriere ed entrare in contatto con la community on-line, avvicinandosi alle conoscenze e agli strumenti più utili per accelerare il processo di product design.

3. Utilizza la critica costruttiva come nutrimento per il processo di sviluppo.

Le iniziali reazioni negativa dei consumatori aiutano molto a plasmare il prodotto. Per ottenere le critiche più preziose per una startup, occorre predisporre la fase di test in modo tale che le persone abbiano la possibilità di scegliere tra differenti opzioni (stili, colori, caratteristiche…).
Inoltre, i founder dovrebbero mantenere un atteggiamento aperto nei confronti dei feedback, per riuscire ad ottenere il meglio dalla fase di testing. Assumere una mentalità chiusa in questa fase trasforma il test di prodotto in una totale perdita di tempo.

Bisogna sempre tenere ben presente il principio di base: qualsiasi modifica e aggiustamento scoperta in fase di test consente di correre ai ripari in fretta e a costi contenuti. Effettuare le modifiche e gli aggiustamenti su un prodotto finale già lanciato sul mercato comporta invece dei costi elevati.

4. Destinare un budget specifico al test di prodotto.

Anche se testare un prototipo in maniera informale è sicuramente meno costoso di una ricerca di mercato formale, bisogna comunque considerare che si tratta di un’attività che comporta dei costi. Il consiglio dell’autore è quello di non sottovalutare mai i costi della fase di testing: si tratta di costi di gestione a livello logistico, costi di raccolta dati, costi per lavorare con i clienti.
Si tratta di attività costose in termini di tempo e di denaro, e di attività piuttosto difficili da non prendere mai sottogamba: per questo è opportuno che la startup metta a disposizione un budget adeguato.

5. Prepararsi in tempo utile.

Se gli utenti di riferimento sono parte di una nicchia di mercato molto specifica, è buona regola iniziare a stabilire i collegamenti con i tester prima possibile. Costruire un network utile richiede infatti parecchio tempo, soprattutto per un prodotto innovativo in cui la rete va costruita da zero.
Inoltre, è consigliabile approcciarsi i propri tester in maniera metodica, non affidandosi alla casualità: questo significa porre a tutti le stesse domande, in modo da avere dei dati e dei risultati davvero utili da analizzare.

In conclusione, Albert ricorda ai propri lettori il principio di base secondo il quale non sarà mai facile modificare un prodotto che è già sul mercato. La fase di test non solo aiuta ad evitare piccoli e grandi intoppi, ma approfondisce la connessione tra una potenziale grande idea e i futuri clienti che un giorno investiranno in essa.

Per leggere il post originale: http://www.entrepreneur.com/article/235201

Napoli, 10/07/2014

Cisco IoT Innovation Grand Challenge: un montepremi da 250.000 $ per startup e idee innovative nell’Internet of Things

Manca ancora qualche giorno alla chiusura della call for ideas per la competition internazionale Cisco IoT Innovation Grand Challenge: fino al 1° luglio 2014 è possibile presentare le candidature per partecipare all’iniziativa del colosso statunitense Cisco Systems, dedicata a team e startup early stage con progetti innovativi in grado di sfruttare il potenziale dell’Internet of Things.

Alla base di Cisco IoT Innovation Grand Challenge c’è infatti la consapevolezza degli organizzatori che entro il 2020 saranno circa 50 miliardi i dispositivi ed oggetti connessi a internet: in uno scenario di questo tipo si aprono interessanti opportunità per le aziende che saranno in grado di sfruttare al massimo le potenzialità offerte dall’Internet of Things, grazie a progetti e prototipi che aiutino a “connettere ciò che non è ancora connesso”.

Possono presentare il proprio progetto singoli individui, team e startup ad elevato potenziale di crescita, che siano in possesso di un’idea innovativa in fase di prototipazione che sia in grado di contribuire alla diffusione dell’Internet of Things su scala globale.

Il contest Cisco IoT Innovation Grand Challenge prevede la possibilità di candidarsi per una delle seguenti categorie:

1) Applications and Applications Enablement: si tratta di applicazioni industriali e commerciali per dispositivi mobile, che possono riguardare l’acquisizione dati, il modelling, la gestione di eventi o di flussi di lavoro, l’integrazione, l’execution, la gestione del ciclo di vita del prodotto, ecc.

2) Analytics: progetti dedicati alla gestione di dati ed informazioni, anche riguardanti i Big Data, basati su algoritmi in grado di estrarre il maggior numero di dati possibili con il minimo sforzo. In particolare, saranno graditi progetti relativi ai settori dei trasporti e della sanità.

3) Management: progetti di applicazioni e sistemi in grado di automatizzare e gestire le reti tradizionali, in particolare con processi scalabili. Applicazioni per la gestione efficace di reti, protocolli e modelli eterogenei.

4) Networking: strumenti e soluzioni per gestire l’infrastruttura di rete tra varie entità nell’Internet of Things (gateway, routing, ecc).

5) Things: idee e progetti che consentano di connettere dispositivi al momento non collegati (sensori, controlli, ecc); sistemi a basso costo per allungare la durata di dispositivi attraverso nuove metodologie di raccolta dell’energia.

Per maggiori dettagli sui progetti e sulle categorie in concorso: https://iotchallenge.cisco.spigit.com/Page/AboutTheContest/Categories?

La prima fase prevista è quella di raccolta delle candidature: i progetti, in lingua inglese, dovranno essere sottoposti agli organizzatori entro il 1° luglio 2014, compilando il form disponibile al seguente link: https://iotchallenge.cisco.spigit.com/User/Register?orig_url=/Page/PostIdea

Tra tutti i progetti candidati, la Giuria di Cisco IoT Innovation Grand Challenge selezionerà i migliori 18 che accederanno alla semifinale. Un’ulteriore progetto semifinalista sarà selezionato dalla community attraverso la votazione on-line dei progetti.
I seminifinalisti avranno 20 giorni di tempo (a partire dalla data di comunicazione dell’ammissione alla fase successiva) per migliorare l’idea e preparare una presentazione testuale (non più di 7 pagine) ed un video (massimo tre minuti), entrambi in lingua inglese: durante questa fase ciascun team potrà usfruire dell’aiuto di uno Sponsor di Cisco.

Sulla base delle presentazioni e dei video la Giuria sceglierà i sei progetti finalisti che parteciperanno alla finale di Cisco IoT Innovation Grand Challenge: a questo punto, ciascuno di essi dovrà preparare un business plan dettagliato ed un nuovo video (stavolta della durata massima di 45 secondi) per presentare il progetto.

Entro il 14 ottobre 2014 la Giuria sceglierà i tre progetti vincitori della competition: il montepremi totale è di 250.000 $ e sarà suddiviso in un primo premio di 150.000 $, un secondo di 75.000 e un terzo di 25.000.

Tutti i finalisti avranno inoltre diritto ad un anno di partecipazione gratuita al Solution Partner Program di Cisco e ad un percorso di mentorship individuale degli esperti di Cisco.

Per ulteriori informazioni: https://iotchallenge.cisco.spigit.com/Page/Home

Il Regolamento completo è disponibile qui: https://iotchallenge.cisco.spigit.com/Page/AboutTheContest/TermsAndConditions?

Napoli, 27/06/2014

Consigli per startup early stage: come presentare il pitch ad un business angel o a un venture capitalist?

L’incontro con potenziali investitori rappresenta un momento chiave per una startup in fase early stage: Inc.com ha pubblicato qualche tempo fa un’interessante vademecum utile per capire quali sono gli step essenziali per sfruttare al meglio l’occasione e presentare il proprio pitch in maniera efficace per convincere un business angel o un venture capitalist.

La guida si apre con il punto di vista sull’argomento di Mike Levinson, co-founder di DreamIt Ventures, programma di accelerazione per startup di Philadelphia: “Non andare oltre la prima base se non sei in grado di affrontare le quattro aree“. Secondo Levinson, infatti, un potenziale investitore focalizza la propria attenzione su quattro punti essenziali:

1) La business idea è abbastanza semplice perché io possa comprenderla e decidere di investire in essa?
2) La business idea risolve un problema o soddisfa un bisogno?
3) Esiste un mercato o una base di clientela abbastanza grande per la business idea?
4) L’imprenditore che propone l’idea ha le persone giuste nel team per realizzarla?

In sostanza, quando un founder incontra un business angel o un venture capitalist cerca di vendere la propria vision e il proprio team. Occorre però tener presente una differenza: gli angel tendono ad essere più interessati ad ascoltare una storia dietro all’idea, alle emozioni che essa può suscitare, mentre il venture capitalist solitamente presta maggiore attenzione ai numeri, le prestazioni e la traction.

Riguardo ai contenuti essenziali da inserire nel pitch agli investitori, bisogna innanzitutto avere un business plan con una strategia di marketing ben definita e solidi dati di bilancio. Ma ciò che può davvero fare la differenza quando si tratta di ottenere un finanziamento, è il modo di presentarsi, di parlare, e quali sono le informazioni aggiuntive che il pitch contiene.

Vediamo quindi alcuni consigli fondamentali che la guida di Inc.com offre ad aspiranti imprenditori per preparare e presentare il proprio pitch agli investitori:

– Alcuni investor sono molto attenti a cercare l’entusiasmo che gli startupper mettono nel proprio lavoro: la passione è quindi un aspetto fondamentale e che “non si può fingere”, come afferma Barbara Corcoran (investor e magnate nel settore immobiliare).

– Uno degli errori più frequenti dei founder che presentano il proprio pitch è quello di spendere troppo tempo a spiegare la tecnologia o il prodotto anziché focalizzarsi sulle motivazioni per cui un investitore dovrebbe finanziare la startup. Quando incontrano una startup, i potenziali investor partono dal presupposto che la tecnologia funzioni: meglio concentrare la presentazione sui dati, sui numeri, sul patrimonio netto. Qualora l’investitore abbia dei dubbi sulla tecnologia o sul prodotto sarà egli stesso a fare delle domande.

– Un aspetto spesso trascurato è il modo in cui ci si presenta agli investitori: la prima impressione, il primo sguardo, contano molto per costruire la fiducia. Occorre quindi fare attenzione a presentarsi ben curati, mantenere il contatto visivo diretto con l’interlocutore, controllare alcuni aspetti della comunicazione non verbale. Ad esempio, alcuni gesti da evitare sono mettere le mani in tasca o torcersi le dita: si tratta di gesti che tradiscono l’ansia e il nervosismo, mentre è importante dimostrare una certa sicurezza.

– La chiarezza è fondamentale: occorre esprimersi in maniera concisa ma efficace, trasmettendo la passione e l’entusiasmo del team. Occorre comunicare chiaramente l’idea, il mercato, i fattori distintivi, le basi del successo finanziario e perchè si dovrebbe investire nell’idea.

– Presentare il pitch con una presentazione PowerPoint di 12 slide è piuttosto standard, soprattutto per una startup nel settore tecnologico. Se c’è un prototipo funzionante è una buona idea quella di mostrarlo agli investor durante l’incontro, in modo da mostrare effettivamente come è fatto il prodotto e come dovrebbe funzionare. Ancora, un punto in più potrebbe essere presentare dati sulle vendite e gli ordini previsti, e risultati di ricerche di mercato, sondaggi, focus group e test di prodotto.

– Un altro aspetto importante è prepararsi ad anticipare le domande che gli investitori potrebbero porre. Alcuni esempi sono: Quanto è grande il vostro mercato? Chi sono i vostri concorrenti? Perchè il vostro prodotto è migliore di quello che è già sul mercato? Qual è la vostra strategia di acquisizione di nuovi clienti? Allo stesso tempo, è importante essere pronti a fornire strategie alternative, una sorta di “piano B” qualora la strategia ufficiale non dovesse permettere il raggiungimento degli obiettivi. Inoltre, quando un investor pone una domanda, è importante mostrarsi calmi e sicuri di sè, prendendosi il tempo per riflettere prima di rispondere. In questo modo si dimostra anche la propria capacità di reagire in maniera efficace e costruttiva quando di è sotto pressione.

– E’ inoltre fondamentale avere già pronta una exit strategy. L’investitore deve sapere come guadagnerà in futuro i propri soldi, forndendo proiezioni a uno e a tre anni. Occorre inoltre tener presente che la maggior parte degli investimenti di business angel restano nel capitale sociale per circa 7/8 anni, prima di procedere con l’exit e vendere ad un’altra compagnia.

– Tenere sempre presente che alcune delle motivazioni più comuni per respingere un accordo tra investor e startup sono: valuation troppo alta, team con poca esperienza, mancanza di vantaggio competitivo, potenziale di crescita insufficiente, indebitamento troppo alto.

– Infine, non pensare che perché il pitch è andato bene, e l’investitore sembra disposto a finanziare il business, l’affare sia ormai concluso: la parte difficile inizia proprio nella fase di follow-up. E’ fondamentale in questa fare mantenere i contatti per ottenere prima possibile un secondo incontro e, al momento di rivedersi, chiedere un accordo scritto. Naturalmente è necessario presentarsi al secondo incontro con la risposta a tutti i dubbi, le domande e le preoccupazioni che l’investor aveva sollevato e avere a disposizione il business plan e i documenti necessari a sottoscrivere l’accordo.

Per leggere l’articolo originale da cui è tratto questo post: http://www.inc.com/guides/2010/10/how-to-pitch-to-angel-investors.html

Napoli, 29/05/2014

Trust Capital, gestione dei dati personali e fidelizzazione dei clienti: la situazione attuale e gli sviluppi futuri di un tema centrale per startup e imprese

Il Trust Capital rappresenta un tema di importanza cruciale per startup e imprese, che riguarda la costruzione del rapporto di fiducia con la clientela e si focalizza in particolare sul tema della sicurezza dei dati del cliente: un argomento di grande attualità, come dimostra un recente sondaggio citato da Blake Cahill (Global head of digital and social marketing per Philips) in un post pubblicato nei giorni scorsi dalla sezione “Big Data” di Lean Back, versione digitale dell’Economist Group.

Secondo il sondaggio, svolto in UK, il 78% dei clienti si dichiara diffidente riguardo al modo in cui le aziende utilizzano i loro dati personali e una percentuale ancora maggiore (82%) ritiene di avere scarso controllo su tale utilizzo. Cahill ritiene che preoccupazioni di questo genere sono in crescita a livello globale, anche se la maggior parte delle aziende tardano a riconoscere questa situazione.

In realtà, le previsioni sono quelle di un cambiamento nei prossimi dieci anni: entro il 2025, è altamente probabile che le modalità di relazionarsi tra brand e clienti cambieranno. I clienti saranno sempre più iper-connessi e avranno sempre maggior consapevolezza del fatto che le aziende raccolgono, utilizzano e monetizzano i dati personali.
Si prevede, inoltre, che entro il 2025 lo status quo sarà cambiato, nel senso che i clienti accetteranno man mano l’idea dell’utilizzo dei dati da parte delle aziende e le loro decisioni di acquisto terranno di conseguenza sempre più conto di questo aspetto.

Alla base di questo cambiamento e del processo decisionale dei clienti, secondo Cahill, ci saranno due driver fondamentali: la scelta e la consapevolezza. Da qui, la convinzione che le startup e imprese devono impegnarsi prima possibile nella costruzione del proprio Trust Capital.

Costruire un solido Trust Capital, infatti, significa dimostrare ai clienti che il brand rispetta e protegge i loro dati, li usa in maniera trasparente, dà la possibilità di scelta e controllo ed educa le persone a proteggere al meglio i propri dati. Cahill afferma che le aziende che si impegneranno nella costruzione del Trust Capital avranno maggiori possibilità di successo nel business degli anni a venire.

Inoltre, è importante tener presente che al momento la tecnologia per la raccolta di dati personali attraverso i software dei dispositivi connessi a internet si evolve più rapidamente della legislazione in materia: brand globali provenienti da aree geografiche differenti sono soggetti a regolamenti e normative differenti, a volte addirittura contraddittori: ciò non fa che accrescere la confusione dei clienti.

In assenza di leggi sulla privacy globali, scrive Cahill, è fondamentale, per costruire il Trust Capital, che startup e imprese si adoperino per mettere in pratica le migliori politiche sulla privacy, applicandole su scala globale: le aziende devono utilizzare e proteggere adeguatamente i dati dei propri clienti allo stesso modo in qualsiasi mercato.

Infine, le opportunità e i vantaggi derivanti dal costruire il Trust Capital per imprese e startup consentono di costruire con i clienti un rapporto equilibrato e duraturo, basato su un utilizzo intelligente, consensuale e responsabile dei dati. Il Trust Capital è quindi di centrale importanza ed ha un impatto fondamentale sulla reputazione complessiva delle imprese, fidelizzando maggiormente i clienti.

L’articolo originale da cui prende spunto questo post è disponibile qui: http://www.economistgroup.com/leanback/big-data-2/building-trust-capital/

Napoli, 08/05/2014

Storie di startup di successo: il co-founder di 24Floors racconta il processo di assunzione e l’importanza di ammettere di non avere tutte le risposte

In un post pubblicato recentemente su The Next Web, Jason Freedman, co-founder di 42Floors (startup americana che offre un portale on-line specializzato nell’affitto di office space), ha raccontato ai lettori la sua esperienza vissuta con i colloqui e l’assunzione di Kiran Diwela, esperto nelle attività di data supply chain.

L’esperienza di Freedman è interessante per le startup, in quanto offre degli utili spunti di riflessione su come gestire i rapporti con i potenziali collaboratori e dimostra come, in alcuni casi, ammettere di non avere tutte le risposte a disposizione può trasformarsi in un punto a favore per il founder di una startup.

Come accennato, Kiran Diwela è un esperto in materia di data supply chain: si tratta di una figura-chiave per la maggioranza delle startup, e in particolare Diwela aveva ottime competenze in tema di comunicazione e management. Queste caratteristiche lo rendono un candidato perfetto per il team di 42Floors, che sposa alla perfezione la cultura aziendale della startup.

Freedman racconta che il processo di assunzione di Diwela è stato molto difficile: aveva diverse opzioni, e sapeva che 42Floors era molto interessata a farlo entrare nel team. Ecco perché Freedman ha deciso di mettersi a sua completa disposizione, rispondendo a tutte le domande e i dubbi che Diwela aveva da porre.

Diwela voleva capire se le sue competenze erano effettivamente adatte al settore immobiliare, per lui completamente nuovo. Inoltre, aveva bisogno di sapere se stava entrando a far parte del team di un’azienda che sarebbe diventata davvero grande.

Durante i vari incontri tra Freedman e Diwela, il co-founder di 24Floors si è sentito come se stesse rivivendo di nuovo il processo di due diligence vissuto nel periodo di fundraising: ha mostrato a Diwela tutti i piani della startup, gli ha parlato degli obiettivi a breve, medio e lungo termine e gli ha spiegato nel dettaglio il piano strategico.

Ma il momento fondamentale che Freedman ricorda è quando Diwela gli ha chiesto quali fossero i piani della startup per mantenere i dati aggiornati quando il business avrebbe iniziato a scalare: si tratta di un aspetto di importanza cruciale per un business come quello di 24Floors. Se non si riesce a mantenere l’aggiornamento dei dati, infatti, i clienti si ritrovano ad avere la peggiore user experience possibile: può succedere di rispondere ad inserzioni non più esistenti, danneggiando enormemente la reputazione dell’azienda.

Un costante e puntuale aggiornamento dei dati, invece, garantisce alla startup la reputazione di fonte di dati attendibile per i clienti: nella fase iniziale, 24Floors riusciva ad acquisire e aggiornare i dati manualmente, ma questo non sarebbe stato possibile nel momento in cui l’azienda avrebbe iniziato a crescere e a scalare.

Il compito di Diwela sarebbe stato proprio quello: trovare il sistema per mantenere i dati costantemente aggiornati. I founders avevano riflettutto sulle possibili strategie da adottare, ma la realtà era che non avevano idea di come affrontare la questione.
Fu proprio quella la risposta che Freedman diede a Diwela: “Non lo so”.

E, con grande sorpresa di Freedman, quella fu la risposta migliore: Diwela, infatti, gli rispose immediatamente che era esattamente la cosa che voleva sentirsi dire per eliminare i suoi dubbi sull’accettare la loro offerta.
Dire la verità, ammettere di non avere la risposta, ha reso credibile il discorso di Freedman agli occhi di Diwela.

L’autore del post racconta che questo molto spesso non accade: i founders delle startup difficilmente ammettono di non avere una risposta, cercano di mostrarsi sempre molto fiduciosi sul prodotto, sul team, sulle strategie, sui futuri andamenti del business e del mercato.
Questo atteggiamento, però, può far sembrare poco credibili e non consente di imparare e, magari, venire a conoscenza proprio della risposta che non si ha.

In conclusione, Freedman consiglia di ammettere semplicemente la verità: è l’unico modo per trasformare un “non lo so” in quello che lui definisce “un compito a casa”.

 

Il post originale è disponibile qui: http://thenextweb.com/entrepreneur/2014/03/09/dont-know-admitting-dont-answers-perfectly-okay/#!zwNnD

Napoli, 13/03/2014

Consigli per startup e imprese: l’importanza delle strategie di Customer Relationship Management

In un interessante articolo pubblicato da IoD, si discute l’importanza fondamentale delle strategie di CRM: la strategia di Customer Relationship Management, spesso ritenuta fondamentale solo per le grandi aziende, è in realtà un aspetto basilare per aziende di qualsiasi dimensione e in qualsiasi fase di sviluppo: in particolare, startup e piccole imprese non dovrebbero mai ignorarne le potenzialità.

La CRM è infatti una strategia necessaria per aumentare le vendite, accrescere la fidelizzazione dei clienti, migliorare i margini di profitto e ridurre i costi di vendita e di marketing: basti pensare ad alcune situazioni tipiche in azienda, come la perdita dei dati di un potenziale cliente, o il caso in cui uno dei migliori clienti decide di passare ad un concorrente.

L’articolo di IoD elenca i 10 motivi fondamentali per cui una startup e, più in generale, un’impresa dovrebbero focalizzarsi sulla strategia di CRM: vediamo più nel dettaglio quali sono.

1. Conoscere i clienti

E’ fondamentale per un’azienda conoscere la “sales history” dei propri clienti, per poter identificare i trends di acquisto. Ecco che assumono importanza informazioni riguardanti il cliente, dai suoi dati e contatti alla frequenza con cui effettua i propri acquisti. In questo modo, è possibile capire quali sono le sue preferenze e contattarlo al momento giusto e con il messaggio giusto.

2. Dare un valore ai clienti

Analizzare la clientela e il modello di acquisto permette all’azienda di quantificare esattamente quanto ciascun cliente vale per il business: i dati di CRM sono fondamentali per identificare i segmenti di clientela più redditizi e possono servire all’azienda per identificare altri segmenti di clientela sui quali puntare.

3. Avere tutte le informazioni in un unico posto

I “Dedicated CRM Systems” consentono di immagazzinare tutti i dati relativi alle vendite e al marketing e di affiancarli ad altri dati fondamentali per l’azienda (ad esempio, quelli sul magazzino o le consegne). In questo modo è possibile unificare tutte le informazioni relative al cliente, assicurandosi di averle a portata di mano quando necessario.

4. Testare e perfezionare le strategie di marketing

Un’altra conseguenza del punto precedente, è che le informazioni a disposizione possono essere utilizzate dall’azienda per analizzare i risultati delle strategie di marketing e per pianificare nuove strategie.

5. Aumentare le vendite

E’ dimostrato che l’implementazione di strategie di CRM in azienda fa aumentare le vendite: ciò accade perché le informazioni a disposizione permettono di indirizzare meglio gli sforzi e le risorse e, in particolare, di mettere in atto approcci strategici rispetto alla risorsa tempo, di migliorare i tassi di conversione e di aumentare il numero di vendite per cliente.

6. Una spinta alla fidelizzazione del cliente

La CRM consente di offrire al cliente un servizio mirato e personalizzato, facendo aumentare il livello di soddisfazione e consentendo di mantere più a lungo il cliente.

7. Up-Sell e Cross-Sell

Avere a disposizione i modelli d’acquisto del cliente consente all’azienda di massimizzare le vendite anche perchè permette di implementare tecniche di vendita mirate come l’up-selling e il cross-selling: la prima consiste nell’offrire al cliente qualcosa di più costoso e/o di maggior valore rispetto alla sua iniziale scelta di acquisto, la seconda consiste invece nell’offrire al cliente prodotti o servizi collegati alla sua scelta iniziale, per rendere l’offerta più completa.

8. Aumentare l’efficienza e ridurre i costi

Poichè le strategie di CRM migliorano il targeting, i costi di marketing e di vendita possono essere ridotti. Inoltre, l’efficienza aumenta anche in termini di tempo e risorse che l’azienda mette a disposizione.

9. Spot trends e monitoraggio

In molti casi le imprese reagiscono ai cambiamenti di mercato soltanto dopo il verificarsi degli eventi: la CRM consente di individuare i cambiamenti nelle esigenze della clientela in tempo reale, riducendo i tempi di risposta.

10. Trovare nuovi clienti partendo dai dati

Le informazioni sui clienti già esistenti possono aiutare l’azienda a trovare nuovi clienti ed effettuare nuove vendite: questo perchè si hanno a disposizione dati e informazioni che permettono di identificare il “cliente tipo” dell’azienda e di mettersi in contatto con nuovi segmenti di clientela.

Per leggere il post originale su IoD: http://ht.ly/sNA4e

Napoli, 28/01/2014

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