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Tag: imprese

Le potenzialità del crowdsourcing per il mercato italiano

Il crowdsourcing è un nuovo modello di business aziendale con cui un’impresa affida la progettazione, la realizzazione o lo sviluppo di un progetto, un’idea o un bene immateriale ad un insieme indefinito di persone (dall’inglese “crowd“, folla). Si tratta quindi di una forma di esternalizzazione delle attività, resa possibile dalla diffusione di internet: il meccanismo è infatti basato sull’esistenza di portali on-line che organizzano delle open call presentate alla community di iscritti. La community vede da un lato volontari, intenditori del settore e freelance, interessati ad offrire i propri servizi sul mercato globale, e dall’altro le aziende (grandi marchi, piccole e medie imprese, startup) che intendono affidare all’esterno parte delle proprie attività.

In materia di crowdsourcing, si segnala la risposta del Ministero del Lavoro all’interpello n. 12/2013 del 27 marzo 2013 avanzato da Confindustria, incentrato sulla questione dell’autorizzazione preventiva prevista dagli articoli 4 e 6 del D. Lgs n. 276 del 10 settembre 2003: il quesito è finalizzato a capire se tale autorizzazione debba essere richiesta o meno dai gestori di portali che svolgono attività di crowdfunding.
L’autorizzazione prevista dall’art. 4 riguarda le Agenzie del Lavoro, che svolgono attività di somministrazione, intermediazione, ricerca e selezione del personale e supporto alla ricollocazione del personale; mentre l’art. 6 si riferisce ai gestori di siti internet che svolgono attività di intermediazione tra domanda e offerta di lavoro.

La risposta del Ministero del Lavoro si basa sul presupposto che il crowdsourcing si differenzia dal tradizionale outsourcing perchè nella prima ipotesi la realizzazione del progetto o la soluzione del problema viene affidata ad un gruppo indeterminato di persone e non ad uno specifico soggetto, come accade invece nel secondo caso.
Sulla base di tale presupposto, la scelta di affidare l’attività non si basa sulla valutazione dell’individuo e delle competenze in possesso di quest’ultimo, bensì sulla soluzione che l’individuo offre all’azienda in risposta alle esigenze di quest’ultima: il parere del Ministero è che l’attività di crowdsourcing porta in genere alla conclusione di contratti di natura commerciale (come la compravendita o l’appalto), e non di contratti di lavoro (siano essi di natura subordinata, autonoma o parasubordinata).

Per cui, la conclusione è che l’attività di crowdsourcing che comporti la stipula di contratti di natura commerciale non rientra nei casi in cui è necessario richiedere l’autorizzazione prevista dagli art. 4 e 6 del D. Lgs n. 276/2003.
Il Ministero specifica anche quando tali autorizzazioni sono invece necessarie: si tratta di quei casi in cui la piattaforma di crowdsourcing svolge attività di ricerca e selezione del personale che portano alla conclusione di contratti di lavoro. In tal caso sono inoltre previste due condizioni: che l’attività di ricerca e selezione sia svolta senza finalità di lucro, e che il sito renda pubblici i dati identificativi del legale rappresentante.

La risposta del Ministero del Lavoro è un passo avanti nella risoluzione dei dubbi e delle problematiche relative ai portali di crowdsourcing gestiti da società italiane, anche se non tocca in alcun modo i portali esteri che svolgono tale attività in Italia.

In ogni caso, il crowdsourcing come modello di esternalizzazione è un argomento molto interessante per le startup: è strettamente connesso alle tecnologie digitali, è basato sulla filosofia open source e può rappresentare un metodo di recruiting veloce ed economico che consente alle aziende di incontrare un gran numero di potenziali collaboratori. Si tratta inoltre di un mercato in fase di crescita in Italia, che può offrire possibilità non solo sotto forma di nascita di nuovi portali ma anche con lo sviluppo di app per il crowdsourcing.

In materia di portali, ultimo nato nel settore è Starbytes.it, la piattaforma di Reply dedicata a freelance e professionisti del digitale (in particolare creativi e designer). Il portale, attivo da aprile 2013, raccoglie tre categorie di progetti: Grafica e creatività, Prodotti e servizi digitali, Prodotti integrati. Il vantaggio di rivolgersi ad un portale italiano che opera esclusivamente sul territorio nazionale sta nel fatto che riduce la concorrenza: sono escluse le proposte provenienti da paesi in cui il costo della vita è più basso, che richiedono compensi inferiori.

Tra i portali di crowdsourcing italiani che mettono in contatto freelance e aziende ricordiamo anche altri esempi:

Zooppa, nata nel 2007 come startup incubata in H-Farm. Lavora soprattutto con contest lanciati da grandi marchi, in cui è la community stessa a decretare il vincitore.

UserFarm, marketplace per videomakers, nasce a Roma nel 2009. Tra le società che propongono i contest ci sono top brand, grandi aziende, network televisivi, organizzazioni di beneficenza e agenzie di comunicazione digitale.

BestCreativity, nata nel maggio 2010, dedicata alla community di designer e creativi. I progetti rientrano in categorie come Disegno grafico, Disegno web, Disegno industriale e Cpywriting.

Come accennato, negli ultimi tempi stanno nascendo anche sul mercato italiano delle app riguardanti il crowdsourcing. I due esempi più recenti sono AppJobber e Be My Eye. Entrambe le app offrono agli utenti la possibilità di accedere ad un elenco di microlavori da svolgere nel tempo libero via smartphone: alcuni possibili esempi sono convalidare indirizzi/orari di apertura di esercizi commerciali, fotografare luoghi ed eventi specifici, confrontare prezzi esposti, attività di mistery shopping, controllo di affissioni pubblicitarie, ecc.
Le app di crowdsourcing per microlavori sono un fenomeno in crescita in Europa: ApJobber, ad esempio, funziona in Germania già dal 2011 ed è attualmente presente, oltre che in Italia, anche in Austria, Svizzera e Finlandia.

Napoli, 03 maggio 2013

Startup innovative: chiarimenti sulle assunzioni

Il Decreto legge Sviluppo bis, n. 179/2012, ha introdotto, con decorrenza dal 20 ottobre, le startup innovative. Per questo tipo di società è prevista una serie di benefici fiscali, cui è possibile accedere solo se in possesso dei requisiti previsti dalla legge vigente in materia di startup.

Il regime fiscale agevolato prevede che la startup innovativa sia esonerata dall’imposta di bollo, dai diritti di segreteria e dal diritto annuale alla Camera di Commercio. E’ previsto inoltre un regime particolare per le assunzioni, allo scopo di adattare la normativa generale alle particolari esigenze di un’azienda in fase di lancio. Il punto di partenza è che anche le startup, come le altre società, possono stipulare contratti di lavoro a tempo determinato per una durata minima di 6 mesi e massima di 36, in cui il lavoratore sia impiegato nello svolgimento di attività “inerenti o strumentali all’oggetto sociale“.

Il Decreto 179/2012 prevede però delle regole ad hoc in materia di assunzioni per le startup innovative: a differenza delle altre società, la startup può infatti assumere un lavoratore con contratto a termine senza applicare il cosiddetto “causalone“. La stipula di un contratto di lavoro a tempo determinato prevede infatti, per tutte le altre forme societarie, di dover indicare (e, laddove richiesto, di provare) le “ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo” che giustificano l’apposizione del termine: le startup innovative sono esonerate da tale obbligo.

La disciplina in favore delle startup innovative prevede un’ulteriore possibilità: entro i 36 mesi, è possibile stipulare ulteriori contratti a tempo determinato senza l’osservanza dei termini previsti dalla disciplina generale: l’art. 5 comma 3 del D. Lgs 368/2001 prevede infatti che un contratto si trasformi automaticamente in indeterminato quando il lavoratore viene riassunto con un altro contratto a termine entro un periodo di tempo pari a 10 giorni, se il contratto precedente ha durata inferiore a 6 mesi, o pari a 20 giorni, se il contratto precedente ha durata superiore a 6 mesi.

Al termine dei 36 mesi, per le startup innovative sarà inoltre possibile stipulare un ulteriore contratto a tempo determinato con il lavoratore, fino al raggiungimento dei quattro anni di beneficio. Per usufruire di questa possibilità è necessario rispettare la seguente condizione: la stipula del contratto successivo ai 36 mesi deve avvenire presso la Direzione provinciale del lavoro competente per il territorio.

Anche riguardo alla stipula di contratti collettivi sono previste regole particolari, adatte alle esigenze delle startup e alle particolari necessità in termini di promozione, sviluppo e stabilità di un’azienda in fase di avvio: è prevista infatti la possibilità di identificare dei criteri minimi tabellari e per la definizione della parte variabile specifici per le startup. E’ prevista infine la possibilità di istituire delle ulteriori disposizioni utili per adattare le regole generali in materia di rapporto di lavoro alle esigenze tipiche delle fasi di avvio do una startup innovativa.

Come accennato, per poter beneficiare del regime fiscale e in materia di assunzione descritto, è necessario che l’azienda sia in possesso dei requisiti previsti per le startup innovative.

Le startup innovative possono costituirsi in forma di società di capitali o cooperativa. Riguardo ai requisiti, prima di tutto, i soci di una startup innovativa devono essere persone fisiche.
L’oggetto sociale esclusivo o prevalente di una startup innovativa è lo sviluppo, la produzione e la commercializzazione di prodotti innovativi ad alto valore tecnologico.
La startup innovativa deve avere la propria sede principale in Italia e deve essere costituita da non oltre 48 mesi. Non può nascere per effetti di fusione, scissione, cessione di azienda o di ramo di azienda.

Per avere accesso al regime di benefici previsto per le startup innovative, inoltre, i soci fondatori non devono distribuire utili per i primi quattro anni, e devono mantenere, per 24 mesi dalla costituzione della società, la maggioranza del capitale sociale e dei diritti di voto nell’assemblea ordinaria dei soci.
A partire dal secondo anno di attività, inoltre, il totale del valore della produzione annua di una startup innovativa deve essere non superiore a 5 milioni di euro, come risultante dall’ultimo bilancio approvato entro sei mesi dalla chiusura dell’esercizio.

Sono previsti inoltre dal Decreto Sviluppo bis tre “requisiti ulteriori“:

  • sostenere spese di ricerca e sviluppo per almeno il 20% del maggiore valore fra costo e valore totale della produzione;
  • impiegare, per almeno un terzo della forza lavoro complessiva, personale con un titolo di dottorato di ricerca o che stia svolgendo un dottorato di ricerca o, ancora, che sia in possesso di laurea e abbia svolto attività di ricerca certificata per almeno tre anni;
  • essere titolare o depositaria o licenziataria di almeno una privativa industriale, che riguardi direttamente l’oggetto sociale e l’attività di impresa.

Per costituirsi come startup innovativa, la società deve essere in possesso di almeno uno di questi tre requisiti.

Infine, per beneficiare del regime specifico per startup, è previsto l’obbligo di iscrizione alla Sezione Speciale del Registro delle Imprese come startup “attiva“: i benefici saranno concessi a partire dall’adempimento di tale obbligo.

Fonte: Il Sole 24 Ore

Napoli, 02 Maggio 2013

 

Approfondimenti: il Crowdfunding in Italia

 Il crowdfunding  è un sistema di finanziamento “dal basso” che prevede il ricorso alla collaborazione della “folla” (crowd) per la raccolta di fondi finalizzata a sostenere la realizzazione di progetti, idee ed iniziative di vario genere. La raccolta viene effettuata attraverso appositi portali on line, delle vere e proprie piattaforme destinate all’incontro tra coloro che richiedono finanziamenti e coloro che li erogano.

Quello del crowdfunding è un tema di grande attualità: proprio oggi si chiudono infatti le consultazioni aperte un mese fa dalla Consob, sulla base delle quali verrà emanato il Regolamento in materia di crowdfunding previsto dal Decreto Sviluppo bis (argomento al centro di questo articolo pubblicato qualche settimana fa nel nostro blog).
Il Regolamento della Consob sul Crowdfunding farà dell’Italia il primo Paese europeo a dotarsi di una normativa nel settore, nella quale si prevede di dare grande rilevanza all’Equity crowdfunding: si tratta di un’occasione molto importante per dare un quadro di riferimento ai finanziamenti di nuove idee imprenditoriali. L’Equity crowdfunding è infatti il sistema di finanziamento dedicato alla partecipazione di investitori nel capitale delle startup: l’auspicio è che la normativa preveda un sistema chiaro, accessibile a tutti e che vada a preservare gli investitori meno esperti, garantendo al tempo stesso un quadro di riferimento che possa aumentare l’accesso ai finanziamenti per le nuove startup del panorama imprenditoriale nazionale.

Per capire meglio di cosa si tratta, analizziamo innanzitutto i diversi modelli di crowdfunding:

Reward-based: si tratta di donazioni in cambio delle quali si ottengono premi o riconoscimenti di varia natura, che possono essere materiali (come ad esempio il pre-ordine di un prodotto non ancora sul mercato) oppure intangibili (come un “grazie” sul sito web). Si tratta della tipologia di piattaforme di crowdfunding più diffuse, di cui il più noto esempio è Kickstarter.

Equity-based: è il modello basato su azioni finanziarie, che prevede l’acquisto di azioni del capitale di una startup. In genere la piattaforma stabilisce un periodo di tempo e una somma target da raggiungere, che viene suddivisa in migliaia di parti uguali corrispondenti alle singole offerte.

Microfinanza: si tratta di microprestiti in cui i servizi finanziari sono offerti a clienti con bassi redditi che normalmente non riescono ad accedere ai canali di finanziamento bancari, spesso gestito da un intermediario locale.

Social lending: è il prestito sociale o peer-to-peer, che avviene tra persone (senza l’intercessione di un intermediario finanziario) e a tassi di interesse più bassi rispetto a quelli del sistema bancario.

Donazioni: si tratta di piattaforme di raccolta fondi per il no profit, grazie al quale è possibile finanziare enti e associazioni o iniziative di utilità sociale e culturale.

In Italia la situazione del crowdfunding è stata recentemente analizzata in occasione di Crowdfuture, conferenza sul futuro del crowdfunding in Italia, durante la quale sono stati diffusi i dati di un report sulle piattaforme italiane di crowdfunding.
Dal Report si ricava prima di tutto la composizione del mercato del crowdfunding in Italia: si contano, al 10 aprile 2013, 21 piattaforme attive e altre due ancora in fase di lancio. La maggior parte delle piattaforme appartengono al modello Reward-based (12 piattaforme, corrispondenti al 52,2% del totale), seguono le piattaforme dedicate alle Donazioni (7, corrispondenti al 30,4%), due piattaforme Equity-based e due Social Lending (ciascuna corrisponde al 8,7%).

Tra le piattaforme Reward-based italiane, ritroviamo la partenopea DeRev, tra le startup vincitrici della nostra competition VulcanicaMente: è una piattaforma che si rivolge a progetti e idee innovative e creative che riescono a risolvere un problema o fornire un nuovo prodotto in grado di migliorare la vita delle persone e della comunità. Si tratta quindi di idee e progetti con una forte propensione al sociale, nella maggior parte dei casi in campo artistico e culturale.
DeRev offre un servizio di crowdfunding a chi fa parte della community, che può essere di varie tipologie (All or nothing, Keep it all e Fundraising, a seconda della presenza o meno di target prefissati in termini di durata e di somma da raccogliere), tutte afferenti al modello Reward-based in quanto prevedono una “ricompensa”.

Le altre piattaforme italiane di crowdfunding elencate nel report e afferenti al modello Reward-based sono: Boomstarter, Com-Unity, Crowdfunding-Italia, Eppela, Kapipal, Produzioni dal Basso, Starteed, Finanziami il tuo futuro, Kendoo, Cineama, Musicraiser.

Tra le piattaforme che si occupano della raccolta di Donazioni, invece, nasce a Napoli nel 2010 Fund For Culture, piattaforma on line nata allo scopo di promuovere l’innovazione sociale nel settore culturale. Il progetto si rivolge, quindi, da un lato a coloro che sono in cerca di fondi per realizzare un’iniziativa culturale e, dall’altro, al mondo dei donatori in Italia che vogliano sostenere la cultura nel territorio. Il crowdfunding messo in pratica da Fund For Culture è quindi a fondo perduto per gli investitori. La piattaforma Fund For Capital ha all’attivo il Kublai Award 2011 ed è stata tra i finalisti di Working Capital 2011.

Le Donazioni rappresentano il modello di crowdfunding con il rapporto più alto tra progetti presentati e finanziati: ben 130 progetti finanziati su 176, per un totale di 245.000 euro raccolti ed erogati grazie al crowdfunding.
Le altre piattaforme di Crowdfunding italiane che applicano il modello delle Donazioni sono: BuonaCausa, Iodono, Pubblico Bene, Retedeldono, ShinyNote, Terzo Valore.

Il report prosegue con le due piattaforme italiane dedicate al Crowdfunding Equity-based: si tratta, come abbiamo detto, del modello di raccolta dei capitali più idoneo per le startup, che in Italia è ancora relativamente poco diffuso rispetto ai primi due modelli analizzati. Abbiamo già accennato all’attuale situazione del sistema di Equity crowdfunding italiano, che è in attesa di regolamentazione: nel frattempo, il report evidenzia come ad oggi le piattaforme Equity-based siano le meno diffuse in Italia, anche dal punto di vista del numero di progetti ricevuti e finanziati. Le piattaforme Reward-based, infatti, hanno ricevuto 1.522 progetti e ne hanno finanziati con successo 242, mentre il Crowdfunding Equity-based ha finanziato 8 progetti sui 110 ricevuti, per un valore totale pari a due milioni di euro.

Le due piattaforme Equity-based attualmente operanti sul mercato italiano indicate dal report sono SiamoSoci (marketplace per startup non quotate in cerca di investitori, che attualmente collabora con Working Capital di Telecom Italia) e We Are Starting (piattaforma di recente creazione, nata nel marzo 2013).

Ultimo modello di crowdfunding attualmente presente nelle piattaforme italiane è quello di Social Lending, detto anche P2P (Peer-to-Peer). Il cosidetto prestito sociale ha finanziato circa il 35% dei progetti ricevuti, con 1.855 finanziati su 5.313 per un totale di oltre 10 milioni di euro.
Le due piattaforme italiane di Social Lending sono Prestiamoci e Smartika: la prima nasce nel 2010, ed è un marketplace in cui si incontrano Richiedenti e Prestatori.
Un aspetto molto importante è la diversificazione del portafoglio di progetti in cui ciascun prestatore investe, un meccanismo che consente di controllare al meglio il rischio.
Anche Smartika è strutturata come una piattaforma di incontro tra Prestatori e Richiedenti, e prevede un meccanismo di diversificazione del portafoglio di investimento simile a quello di Prestiamoci. Nata in origine come Zopa, la sua attività è stata interrotta nel 2009 dopo alcuni mesi di lavoro per problemi inerenti alla mancanza di Autorizzazioni. Da circa un anno, ottenute le Autorizzazioni in questione, il team di Zopa ha ripreso la propria attività con la piattaforma Smartika.

Il Report include anche l’analisi delle criticità del sistema di crowdfunding italiano: prima di tutto, evidenzia l’attuale situazione di scarsa chiarezza del quadro normativo, ma come sappiamo tale aspetto è attualmente in via di definizione. Si riscontra inoltre una mancanza di cultura del crowdfunding e difficoltà nella promozione e comunicazione delle piattaforme. Infine, l’attuale sistema di pagamento presenta delle difficoltà tecniche.

Ciò nonostante, si riconosce una grande vivacità nel mercato di crowdfunding italiano: si tratta di un sistema che sta maturando facendosi via via più complesso e articolato, ma mantenendosi comunque in una situazione di crescita controllata.
Si evidenzia inoltre una maggiore attenzione alla necessità di diffusione della conoscenza di questo importante strumento a fasce sempre più ampie della popolazione: lo dimostra l’aumento degli eventi sul crowdfunding in tutto il territorio nazionale.
Tutti questi aspetti fanno ben sperare per l’evoluzione e la diffusione del crowdfunding in Italia, visto da più parti come uno strumento fondamentale per la nascita di progetti basati sull’innovazione e sulla sostenibilità che possano guidare i nuovi imprenditori verso il futuro e il cambiamento: restiamo in attesa del Regolamento della Consob per capire quali saranno le evoluzioni.

Per saperne di più, il Report è disponibile al seguente link: http://www.slideshare.net/crowdfuture

Napoli, 30/04/2013

“Non costruiamo barche, costruiamo portaerei”: l’approccio di Rocket Internet alle startup

Dopo i consigli di Richard Branson su come convincere gli investitori a finanziare la propria startup, prendiamo spunto dall’intervista pubblicata ieri da VentureBeat per capire come lavorano a Rocket Internet, il Venture Builder on line con sede a Berlino fondato dai fratelli Samwer che lavora oggi in oltre 40 paesi del mondo.

Jon Soberg, partner di Blumberg Capital (società di Venture Capital specializzata in investimenti nel settore ITC e dei servizi) ha intervistato il co-fondatore di Rocket Internet Oliver Samwer in occasione di un incontro di due diligence tra i due.
Samwer racconta come è nata Rocket Internet partendo dagli anni Novanta, quando durante i suoi studi in America ha conosciuto la realtà startup della Silicon Valley: resta profondamente colpito di come le persone avessero tantissime idee imprenditoriali innovative, e intuisce la potenzialità del web come strumento di condivisione delle idee: “Internet sembrava un immenso parco giochi dove poter esprimere le proprie business ideas“.

Tornato in Germania, decide di fondare insieme ai fratelli la propria società, iniziando a concentrarsi prima di tutto sul proprio Paese e lavorando duramente giorno dopo giorno. L’espansione della società a livello globale è il risultato di un lavoro quotidiano, che Samwer definisce come quello di un “Gigante silenzioso“: oggi lavorano con 55 startup, attive in tutti i continenti e con 20.000 dipendenti nel mondo.

Il modello di Internet Rocket è spesso definito con la parola “clone“: il loro lavoro è infatti quello di prendere modelli di business che funzionano in determinate situazioni e riproporli su scala globale. Samwer spiega il successo del modello di Rocket Internet partendo da un concetto di base: non basta avere una buona idea innovativa per ottenere il successo imprenditoriale. Il lavoro di Rocket Internet è infatti incentrato sull’execution: l’esecuzione dell’idea innovativa è la chiave del successo, è il modo in cui essa viene messa in pratica che fa la differenza.

Da qui passa a spiegare un altro aspetto che caratterizza l’approccio dei fratelli Samwer alle startup in cui decidono di investire: c’è un forte coinvolgimento, con incontri settimanali e partecipazione attiva al lavoro dei team. Questo approccio partecipativo, assieme ad una grande attenzione ai dettagli e alla convinzione che la chiave di ogni buon progetto sia accrescere la conoscenza, fa di Rocket Internet uno dei migliori Venture Builder d’Europa. Samwer spiega infatti che nella propria concezione di business non ha senso che il Venture Capitalist assuma l’atteggiamento di “un uccello che osserva dall’alto“, occorre lavorare fianco a fianco con le startup per ottenere buoni risultati.

L’intervista prosegue con il tema dei dipendenti: Samwer spiega che per ottenere i migliori risultati il loro approccio è quello di dare immediatamente delle responsabilità a chi entra in azienda. E’ questo secondo la Rocket Internet il modo migliore per far crescere i giovani professionalmente.

In chiusura, Samwer accenna al nuovo fondo di 150 milioni di euro che la società ha messo a disposizione di nuovi progetti di business ad alto potenziale nel settore del web: l’obiettivo del Global Founders Capital è quello di espandere l’attività della Rocket Internet in nuovi campi, tra cui  Big Data, viaggi e mobile apps, sulla scia delle illimitate possibilità che internet offre allo sviluppo sconomico globale.

Per informazioni su Global Founders Capital: http://www.globalfounders.vc/#intro

Napoli, 26 Aprile 2013

Il Minimum Viable Product spiegato da Eric Ries, autore del libro The Lean Startup

Il Minimum Viable Product (MVP) è uno dei concetti introdotti dall’approccio “The Lean Startup” di cui abbiamo parlato in un recente articolo del blog.
Per capire meglio di cosa si tratta, prendiamo spunto dalle slides pubblicate da Eric Ries nel suo blog “Startup Lessons Learned“, nelle quali Ries descrive i due possibili approcci di una startup alla costruzione di un nuovo prodotto:

  • “Massimizzare le possibilità di successo” significa costruire da subito un prodotto di alto livello, con un numero di caratteristiche abbastanza elevato da incuriosire i clienti per indurli all’acquisto. Questo tipo di approccio presenta l’inconveniente di non poter contare su nessun feedback fino alla fine del ciclo, quando sarebbe ormai troppo tardi per apportare modifiche al prodotto.
  • “Release early, release often” significa iniziare fin da subito con ripetuti lanci sul mercato di versioni rivedute e corrette del prodotto. In questo modo si inizia fin da subito ad ottenere feedback dai clienti, ma c’è il rischio di ritrovarsi in un circolo vizioso dove la startup continua a rincorrere ciò che pensa vogliano i clienti.

Il Minimum Viable Product rappresenta la via d’uscita ai problemi di entrambi gli approcci: si tratta di una versione iniziale del prodotto costruita in modo tale da ricomprendere il set minimo di caratteristiche indispensabili al team per capire cosa desiderano i clienti. Il Minimum Viable Product consente di ottenere il maggior numero possibile di informazioni con il minimo sforzo in termini di capitale, di tempo e di energie: grazie ad esso, la startup evita di mettere sul mercato un prodotto che nessuno vuole comprare.
La funzione del Minimum Viable Product è quindi quella di ottenere i feedback dai primi clienti in maniera da colmare il gap delle caratteristiche carenti nel prodotto, il suo utilizzo permette al team di avere una visione più ampia del mercato attraverso un percorso fatto di iterazioni e piccoli passi avanti, evitando il circolo vizioso cui si è fatto accenno prima.

Ries chiarisce però che il Minimum Viable Product non è, a dispetto del nome, un prodotto minimale: si tratta anzi di un prodotto che richiede alla startup uno sforzo supplementare (anche qui, in termini di capitale, tempo ed energie) perchè per essere davvero utile deve essere costruito in maniera tale da consentire al team di imparare qualcosa, per capire come agire al momento della prima iterazione.
Gli sforzi dovranno essere indirizzati all’ottenimento di feedback dai clienti, ma anche in un accurato lavoro di analisi e misurazione dei risultati.

Infine, Ries mette in guardia le aspiranti startup su alcune possibili situazioni in cui potrebbero ritrovarsi quando decideranno di approcciarsi allo strumento del Minimum Viable Product :

  • Falsi negativi: il team potrebbe ritrovarsi a pensare che ai clienti sarebbe piaciuto il prodotto completo, nella sua versione definitiva, mentre il Minimum Viable Product non è abbastanza “appetibile“. Pensando in questi termini, la startup potrebbe decidere di abbandonare il Minimum Viable Product.
  • Il complesso del visionario: si tratta della situazione in cui il team crede di conoscere quali siano i bisogni, i desideri e le esigenze del cliente, meglio del cliente stesso (“Ma il cliente non sa quello che vuole!“).
  • Troppo occupati per imparare: è il terzo caso delineato da Ries, quello in cui la startup pensa che il Minimum Viable Product sia “una perdita di tempo” e che sarebbe meglio costruire direttamente il prodotto finale da lanciare sul mercato.

In conclusione, il Minimum Viable Product è uno strumento di fondamentale importanza nel processo di crescita di una startup, che andrebbe utilizzato nonostante i costi aggiuntivi che comporta: tali costi, infatti, saranno ampiamente ricompensati dai vantaggi derivanti dal lanciare sul mercato un prodotto costruito sulla base delle esigenze dei clienti.

La presentazione di Eric RIes è consultabile al seguente link: http://www.slideshare.net/startuplessonslearned/minimum-viable-product

Napoli, 25/04/2013

Berlino, Londra, Dublino: Le migliori startup d’Europa per Tech All Stars

Tech All Stars è una delle iniziative dedicate alle Startup a livello comunitario nell’ambito della Digital Agenda. Si tratta di un progetto della Commissione Europea consistente in una serie di eventi che si terranno quest’estate a Berlino, Londra e Dublino per offrire alle migliori startup europee la possibilità di incontrare i migliori imprenditori, mentor, venture capitalist e business angels.

Per poter partecipare, le startup devono possedere tre requisiti: essere registrate in uno degli Stati Membri, essere in attività da meno di tre anni e aver raccolto meno di 1 milione di euro di capitali esterni.
La deadline per candidare il proprio progetto è fissata per il 15 maggio 2013, è possibile iscriversi a questo link: http://www.f6s.com/techallstarsapply#programs/ajax-application

Le tappe previste per Tech All Stars sono:

  • 7 e 8 giugno a Berlino: in collaborazione con Angels Bootcamp, vi parteciperanno le 12 migliori startup selezionate tra tutte quelle che avranno presentato la propria candidatura. I partecipanti visiteranno la città e avranno l’oppostunità di incontrare i migliori mentor, imprenditori ed investitori. Con i loro consigli, impareranno a implementare e migliorare il proprio pitch e riceveranno preziosi feedback dagli esperti del settore. A Berlino la giuria sceglierà le migliori tre startup che proseguiranno l’avventura di Tech All Stars.
  • 13 giugno a Londra: Tech All Stars partecipa con le tre startup finaliste al Founders Forum, durante il quale potranno presentare il proprio pitch ad una platea composta dai migliori imprenditori ed investitori della scena internazionale, tra cui spiccano i nomi di Mark Zuckerberg (Facebook) e Richard Branson (Virgin). Si tratta di un evento molto esclusivo cui difficilmente le startup hanno accesso, è pertanto un’occasione unica per i tre progetti finalisti.
  • 19 e 20 giugno a Dublino: il vincitore potrà visitare la città e soprattutto presentare il proprio progetto agli esperti della Commissione Europea della Digital Agenda, da cui riceverà un riconoscimento e un premio speciale.

Per saperne di più: http://techallstars.eu/

Napoli, 24/04/2013

Il Turismo, nuova frontiera di sviluppo per le startup innovative in Italia?

In un paese come l’Italia, il turismo rappresenta sicuramente una delle potenziali fonti di ricchezza e, in quanto tale, un settore in cui può essere molto proficuo investire.
Appaiono molto interessanti le potenzialità di applicazione delle tecnologie digitali e dell’ICT nel settore, tanto che da tempo si parla di Turismo 2.0 come nuova e promettente opportunità per il sistema economico nazionale.
Basti pensare alle grandi possibilità di sfruttare le ICT e il digital per ottimizzare la comunicazione dell’offerta turistica, da parte degli operatori privati ma anche e soprattutto delle amministrazioni pubbliche: le nuove tecnologie applicate al Destination Management consentirebbero di spaziare in nuovi orizzonti nella costruzione e comunicazione dell’immagine turistica del territorio.
L’innovazione tecnologica, in campo turistico, passa anche da tutto ciò che riguarda la sostenibilità, la qualità della vita e il rispetto per l’ambiente: ecco perchè energie green e smart city sono sicuramente concetti connessi al turismo, in quanto migliorano l’attrattività dei territori sia per cittadini e imprese che per turisti e visitatori.

Attualmente le startup innovative nel settore sono ancora molto poche, basti pensare che secondo i dati recentemente diffusi da Infocamere, tra le startup iscritte al Registro delle Imprese solamente 3 fanno capo al settore turistico.
Sembra però che la situazione stia cambiando: innanzitutto a livello istituzionale, come dimostra il Bando Startup pubblicato dal MIUR nel mese di marzo. In ognuna delle tre linee di intervento destinate ai progetti innovativi di impresa, infatti, il turismo è inserito nell’elenco dei settori di intervento previsti dalla normativa. In particolare, per le linee 1 e 2 (Big Data e Cultura ad impatto aumentato) si parla genericamente di turismo, mentre per la linea 3 (Social Innovation Cluster) è previsto nello specifico il settore del turismo responsabile.
Da notare che nel Bando Startup si fa ampio riferimento anche alle energie green e a tematiche tipiche delle smart city: per la linea 1 si fa riferimento ai settori della mobilità e dell’energia, mentre per la linea 3 si parla di energie rinnovabili, sviluppo sostenibile e utilizzo efficiente delle risorse naturali; tutela dei beni culturali, paesaggistici e ambientali e soluzioni innovative per la qualità della vita.

L’incremento dell’interesse per il settore turistico si rileva anche in iniziative non istituzionali, come ad esempio nel recente bando per il Premio Marzotto: nella sezione “Premio Impresa del Futuro” sono messi in palio ben 250.000 euro per la migliore idea imprenditoriale che abbia un significativo impatto positivo in ambito sociale, culturale, territoriale o ambientale e il turismo è ancora una volta tra i settori di intervento preferibili elencati. Inoltre, anche da programmi di accelerazione come Working Capital e Mind The Bridge stanno venendo fuori esempi di startup innovative dedicate al settore turistico.

Tra le 12 startup presentate all’inaugurazione dell’edizione 2013 di Working Capital, ben due sono gli esempi connessi al turismo: CicerOOs, un motore di ricerca dedicato al mondo dei viaggi, e Map2app, software per la creazione di guide turistiche mobili.
Riguardo a Mind The Bridge, ha riscosso particolare successo il progetto Find your Italy, startup ospitata nell’acceleratore di impresa del Polo Tecnologico di Pavia, che ha vinto la borsa di studio per la scuola californiana di MTB ed è tra i finalisti della competition. Il suo progetto prevede la creazione di un network di persone ed esercizi commerciali locali che entrino in contatto diretto con il turista e lo accompagnino nel suo viaggio alla scoperta dell’Italia più autentica.

Un’altro esempio recente è dato della campagna per la promozione turistica e culturale dell’Isola di Malta lanciata dall’Ente del Turismo di Malta su web e mobile. La campagna prevede spazi pubblicitari sulle maggiori testate on line di RCS MediaGroup e Gruppo Editoriale L’Espresso e banner su mobile e su web. Su mobile è, inoltre,possibile consultare gratuitamente la Guida in formato PDF, realizzata con la collaborazione di Lonely Planet, e usufruire dell’applicazione “Visit Malta”.

La campagna è realizzata dalla 4w MarketPlace, startup dell’incubatore Digital Magics. Si tratta di un network pubblicitario italiano che gestisce campagne pubblicitarie sul web e tramite smartphone. Dal 2009 può contare su un accordo esclusivo con Premium Publisher Network, Consorzio fondato dal Gruppo Editoriale L’Espresso e da RCS MediaGroup – a cui hanno aderito RAI, La Stampa, ANSA, Gruppo Finelco, Class Editori e le principali testate locali. Dal 2011 è inoltre in possesso della certificazione come advertising provider di Facebook, che consente la vendita di pubblicità all’interno del social network. Infine, ha ricevuto nel 2012 un finanziamento di 2,5 milioni di euro da Principia SGR finalizzato al potenziamento dello sviluppo tecnologico.

Si tratta del caso più recente di una startup di successo che ha previsto l’applicazione delle tecnologie innovative al settore turistico: un campo che in Italia può offrire numerose e interessanti opportunità agli startupper.

Napoli 23/04/2013

Working Capital 2013: nuovi spazi e strumenti per le startup italiane

Working Capital è il programma di accelerazione e supporto per startup nato nel 2009 ad opera di Telecom Italia. In questi anni ha dato vita a vari progetti, coinvolgendo giovani talenti e finanziando molte idee innovative:

  • 2009/2010: Oltre ad un proficuo progetto di collaborazione con il mondo delle Università, che ha portato al finanziamento di 29 progetti di ricerca, Working Capital si è impegnata a finanziare 13 startup e ha offerto ad altre 36 startup un periodo di pre-incubazione fondamentale sia a livello formativo che come momento di riflessione sulle linee d’azione da intraprendere per realizzare i propri progetti.
  • 2011: In occasione del 150° anniversario dell’Unità d’Italia, Working Capital in collaborazione con PNICube organizza il “Tour dei Mille“, girando l’Italia alla ricerca delle migliori 1.000 idee innovative. Il risultato sarà la raccolta di ben 2.139 progetti, di cui 14 premiati durante il Tour. Tra i 150 finalisti, 16 hanno ricevuto un contratto di ricerca, 4 progetti sono stati finanziati con un contributo di 100.000 euro ciascuno e sono stati assegnati 4 premi speciali per le startup.
  • 2012: Working Capital diventa Accelerator, candidandosi a creare una Silicon Valley tutta italiana. Nel novembre 2012 organizza l’evento “Si può fare“, che riceve ben 800 pitch da tutta Italia: saranno assegnati in quest’occasione 20 grant d’impresa del valore di 25.000 euro ciascuno, per i migliori progetti digital e green.

Nel 2013 il cammino di Working Capital Accelerator fa un grande passo avanti, con l’apertura di tre nuovi acceleratori a Roma, Milano e Catania: lo scopo è quello di costruire un sistema di innovazione forte e diffuso sull’intero territorio nazionale, creando tre punti che favoriscano l’incontro tra giovani talenti, investitori e territorio. La scelta delle tre città sede dei nuovi acceleratori dipende dall’obiettivo di coprire l’intero territorio nazionale, da nord a sud, creando così tre punti nevralgici per l’implementazione del sistema innovativo italiano.
Per ciascuna sede è stata scelta una realtà vicina al territorio cui affidare il progetto: l’acceleratore di Roma sarà gestito da Iquii, con Fabio Lalli e Lorenzo Sfienti; quello di Milano da dPixel, con Gianluca Dettori e Franco Gonella; mentre a Catania la gestione è affidata a StartupCT, con Antonio Perdichizzi, Peppe Sirchia e Mario Scuderi.

L’inaugurazione dell’edizione di quest’anno si è tenuta il 19 aprile a Roma, e in quell’occasione Marco Patuano (AD di Telecom Italia) ha spiegato tutte le novità previste: innanzitutto la nuova call, attraverso cui Working Capital mette a disposizione dei migliori progetti ben 30 grant del valore di 25.000 euro ciascuno. Le startup dovranno presentare progetti nei settori internet, digital life, mobile evolution e green.
I 30 grant saranno così suddivisi:

  • 15 saranno destinati alle startup selezionate per partecipare al percorso di accelerazione. Per partecipare alla selezione il progetto dovrà essere caricato sul sito di Working Capital entro il 30 maggio 2013, indicando la sede prescelta tra i tre acceleratori Working Capital.
  • 15 saranno destinati alle migliori startup non selezionate per il percorso di accelerazione, che avranno sottoposto la propria candidatura per la call aperta dal 19 aprile al 30 settembre 2013. In questo secondo gruppo Working Capital prenderà in considerazione sia coloro che non avevano richiesto di partecipare al percorso di accelerazione, sia coloro che non erano stati ritenuti idonei per partecipare.

Un ulteriore, importante novità prevista per il 2013 è la nascita dello Startup Repository WCAP, una piattaforma realizzata grazie alla collaborazione con la Kauffman Society. La funzione del Repository è quella di consentire agli investitori nazionali ed internazionali di accedere ai progetti che si iscriveranno alla piattaforma. Sono già presenti attualmente oltre 15.000 progetti registrati alla piattaforma, tra cui i 4.000 progetti che hanno animato le edizioni precedenti di Working Capital, cui presto si aggiungeranno i progetti di quest’anno.

Per informazioni e per inviare le proprie candidature: http://www.workingcapital.telecomitalia.it/

Napoli, 22 aprile 2013

The Lean Startup: l’approccio “snello” spiegato da Steve Blank

In un recente post pubblicato nel suo blog, Steve Blank introduce il suo articolo pubblicato nell’ultimo numero della Harward Business Review dedicato alla metodologia Lean per startup e a come l’applicazione di quest’ultima possa cambiare non soltanto l’andamento di un’impresa, ma addirittura possa avere ripercussioni positive sull’intero sistema imprenditoriale, fornendo una spinta importante per l’uscita dalla crisi economica mondiale.

Nella sua carriera di docente, imprenditore e founder di varie startup, Blank ha osservato quali fossero le cause di fallimento più frequenti per le startup e ha avuto l’intuizione di come queste in realtà non fossero quasi mai legate a caratteristiche del prodotto. Da qui, l’intuizione di analizzare meglio l’approccio “classico” di Product Development, per capire quali fossero i problemi. Tale approccio di avvio di un’impresa prevede un percorso “a cascata” che attraversa nell’ordine una serie di fasi: punto di partenza è la stesura del Business Plan, che viene proposto agli investitori. Segue l’organizzazione del team, il quale procede a sua volta alla creazione del prodotto, che viene poi immesso sul mercato. Blank osserva che in questo approccio deve esserci qualcosa che non funziona, visto che secondo le statistiche il 75% delle nuove imprese falliscono (Blank cita in proposito una ricerca condotta dalla Harvard Business School).

La sua conclusione è che il Business Plan non sia lo strumento più adatto ad un business in fase di avvio: secondo Blank, infatti, esso raramente sopravvive al primo contatto con i clienti. Il motivo è da ricercare prima di tutto nella pretesa di fare delle previsioni a lungo termine (il Business Plan prevede un piano quinquennale): il mercato oggi non consente più approcci del genere, è in continua evoluzione, e un piano del genere “è fantascienza”.
Altra learned lesson che Blank condivide con i lettori è che le startup non vanno considerate come versioni “in piccolo” delle grandi aziende: queste ultime devono concentrarsi per far funzionare il proprio modello di business già esistente, mentre una startup deve seguire un approccio differente, lavorare sull’iterazione e sul learning and discovery, migliorando di continuo il proprio prodotto sulla base dei feedback dei propri clienti.
Ragionando su queste intuizioni, Blank costruisce una definizione rivoluzionaria di startup che porterà al superamento del modello di Product Development, alla nascita del modello di Customer Development e in seguito alla definizione della metodologia Lean da parte di Eric Ries (imprenditore della Silicon Valley, studente di Blank e autore del manuale “The Lean Startup“): un’azienda in fase di startup è un organismo temporaneo, progettato per la ricerca di un modello di business ripetibile e scalabile.

A questo punto, Blank elenca i tre principi chiave di un approccio Lean adatto alle startup:

  1. Delineare le ipotesi. Piuttosto che impelagarsi in mesi di ricerca e progettazione per scrivere un intricato Business Plan pluriennale, i founder devono concentrarsi sul fatto che ciò che davvero conta è il primo giorno in cui testeranno la propria idea e le proprie ipotesi a riguardo: lo strumento più adatto è il Business Model Canvas, un diagramma che mostra come l’impresa crea valore per sè e per i propri clienti.
  2. Ascoltare i clienti. Secondo Blank le startup devono “uscire dal palazzo” e seguire il modello di Customer Development: esso consiste nell’incontrare i propri clienti e testare le proprie idee ed ipotesi. Con l’aiuto dei feedback ricevuti, i founder devono costruire in tempi brevi il “Minimum Viable Product“, la prima versione del prodotto, e immetterlo sul mercato per ricavare ulteriori feedback dai clienti. In questa fase, sono fondamentali la velocità e l’approccio “Agile“, che consentono di individuare eventuali modifiche da apportare (per le piccole modifiche si parla di iterazioni, per quelle più sostanziali di pivot).
  3. Sviluppo rapido e responsivo. Si identifica con il cosiddetto Sviluppo Agile, nato in origine nel settore dei software e applicato da Ries alle startup nel suo “The Lean Startup“. Lo sviluppo “Agile” lavora di pari passo con quello “Customer” garantendo un processo di sviluppo del prodotto iterativo ed incrementale che elimina gli sprechi di tempo e risorse tipici dei piani di produzione pluriennali. Si tratta in sostanza del processo che consente alla startup di creare il Minimum Viable Product con cui affacciarsi al mercato.

Attualmente, il metodo Lean di approccio alle startup si sta diffondendo sempre di più: Steve Blank spiega che attualmente sono più di 25 le Università che offrono corsi in materia, oltre ad alcuni corsi on-line. Sono sempre più numerose, inoltre, le organizzazioni e le iniziative dedicate, come Startup Weekend, che diffondono i principi della metodologia Lean in tutto il mondo.
Addirittura le grandi aziende stanno iniziando ad avvicinarsi a tale approccio, come Steve Blank racconta nel suo articolo, citando l’esempio della General Electric e della sua Divisione Energy Storage, che ha lanciato la sua ultima batteria applicando la metodologia Lean. Il direttore generale della Divisione, Prescott Logan, si è infatti impegnato a parlare con i propri clienti prima di lanciare la nuova batteria sul mercato, apportando modifiche ai piani sulla base dei feedback ricevuti e lanciando il nuovo prodotto sul mercato nel 2012 con un investimento di 100 milioni di dollari: il risultato è stato un enorme successo sul mercato, tanto che GE ha già una serie di ordini in arretrato che si sta affrettando a soddisfare.

Nel proprio articolo Blank afferma che la diffusione delle metodologie Lean consente di ridurre le probabilità di fallimento delle startup: ciò significa creare nuovi posti di lavoro che possano sostituire quelli eliminati dalle grandi aziende esistenti, dando nuova spinta all’economia globale e facendo un passo avanti verso l’uscita dalla crisi economica.
Per rafforzare la propria tesi, Blank parte dall’elencazione dei cinque fattori che limitano la crescita delle startup oltre al rischio di fallimento:

  1. Costi troppi elevati, sia per raggiungere i primi clienti che per risollevarsi in caso di difetti e problemi del prodotto.
  2. Cicli di sviluppo tecnologico troppo lunghi.
  3. Numero limitato di persone disposte ad assumersi il rischio di fondare una startup o di lavorare al suo interno.
  4. L’attuale struttura del settore del capitale di rischio, in cui poche imprese sono cosrette ad investire grosse somme di denaro in un portafogli di startup per avere la possibilità di ritorni significativi.
  5. La concentrazione delle competenze in materia di startup, problema molto diffuso soprattutto negli Stati Uniti (vedi Silicon Valley), ma presente in minor misura anche in Europa e nel resto del mondo.

Secondo Blank, l’approccio Lean è in grado di ridurre innazitutto primi due vincoli: le imprese che interagiscono con i propri clienti hanno a disposizione dei feedback per mettere sul mercato un prodotto più adatto ai loro bisogni, e i cicli di sviluppo fondati sull’iterazione e i pivot sono più rapidi ed economici rispetto a quelli basati sui sistemi tradizionali. Ne consegue la riduzione del rischio connesso alla creazione di nuove startup, quindi diminuisce anche la rilevanza del terzo vincolo.

Sono anche altre le tendenze attuali che aumentano la disponibilità ad investire nella creazione di nuove startup: prima di tutto la diffusione di software open source e servizi cloud, che non costringono più le aziende a dotarsi di stabilimenti propri per la produzione di prodotti hardware.
In secondo luogo, si assiste ad un’importante tendenza di decentramento riguardo al sistema di accesso ai finanziamenti: l’ecosistema attuale vede la nascita di business angel e venture capital ovunque, non occorre più stabilirsi nella Silicon Valley per ottenere un finanziamento per la propria startup.
Altro vantaggio rilevante per le nuove imprese è l’immediata disponibilità delle informazioni cui oggi si può avere accesso grazie a internet: non è più necessario organizzare incontri formali con gli investitori per poter parlare con loro.

La conclusione di Blank è che questo sia il momento più adatto a fondare una propria startup, e che la metodologia Lean sia quella migliore da applicare. Il suo post si conclude infatti con l’invito a leggere il suo articolo che sarà disponibile gratuitamente sul sito della Harvard Business Review per un mese: “Go read it … Then go to do it“.

Napoli, 19/04/2013

Opportunità di finanziamento per le imprese campane: il Fondo Jeremie

Jeremie è l’acronimo che sta ad indicare il fondo Joint Europe Resources for Micro to Medium Enterprises, nato su iniziativa della Commissione Europea e sviluppato in collaborazione con il Fondo Europeo per gli Investimenti per facilitare l’accesso al credito delle Piccole e Medie Europee nelle aree di riferimento. E’ importante specificare subito che il Fondo non viene erogato direttamente alle imprese, ma passa attraverso una serie di partner identificati tra gli intrmediari finanziari delle varie aree cui il fondo è destinato.
Si tratta di uno strumento di finanziamento esistente già da alcuni anni, che in Campania ha messo a disposizione negli ultimi due anni circa 18 milioni di euro e per il quale è stata aperta una nuova Manifestazione di Interesse dal 5 al 30 aprile 2013 destinata agli intermediari finanziari che da qui al 2015 vogliano diventare partner di Jeremie Campania. L’Europa prevede quindi di destinare nuove risorse al fondo, per cui è interessane capirne i meccanismi di funzionamento e le modalità di accesso.

Prima di tutto è possibile individuare una caratteristica imprescindibile per le imprese che intendono beneficiare del Fondo Jeremie: la scelta di effettuare nuovi investimenti che promuovano l’innovazione e lo sviluppo del tessuto economico di riferimento. Si tratta quindi di imprese che potremmo definire virtuose, nel senso che operano nel rispetto di criteri di sostenibilità economica e ambientale.
Tale aspetto è ancora più evidente per il Fondo Jeremie Campania, come deducibile dal fatto che nella Manifestazione di Interesse cui si è fatto cenno i settori prioritari di intervento previsti sono ICT, artigianato, attività culturali, servizi per il benessere e la cura della persona.

Gli obiettivi del Fondo dichiarati a livello comunitario specificano che esso è destinato sia alla creazione di nuove imprese che all’espansione di imprese già esistenti, e che gli investimenti possono avere le seguenti finalità:

  • modernizzare e diversificare le attività, sviluppare nuovi prodotti, assicurare e ampliare l’accesso al mercato;
  • finanziare la ricerca e lo sviluppo orientati al trasferimento di tecnologie, innovazione e imprenditorialità;
  • perseguire la modernizzazione tecnologica delle strutture produttive per poter raggiungere gli obiettivi delle economie a bassa emissione di anidride carbonica;
  • creazione e salvaguardia di posti di lavoro sostenibili.

Il Fondo Jeremie Campania è destinato in particolare a micro, piccole e medie imprese con sede legale e/o unità produttiva nel territorio regionale (requisito fondamentale che dovrà essere mantenuto per tutta la durata del finanziamento), anche in forma cooperativa e in consorzi, operanti nell’indstria, nell’artigianato, nel commercio, nel turismo e nei servizi con particolare riferimento ai seguenti settori:

  • tecnologie informatiche;
  • automotive;
  • biotecnologie;
  • aerospaziale;
  • agro-alimentare;
  • risparmio energetico ed energie rinnovabili.

In Campania, i partner dell’iniziativa sono Banca del Mezzogiorno – Mediocredito Centrale e Banca Unicredit. Il meccanismo di finanziamento è un mutuo per cifre da 10.000 a 1.500.000 € per ciascuna impresa, della durata massima di 8 anni (elevabili a 10), di cui una quota del 45% a tasso zero, e il restante 55% a tasso variabile.
Riguardo alle attività finanziabili, tra esse rientrano costi e immobilizzazioni materiali e immateriali, incremento del capitale circolante per sviluppo dell’attività e fabbisogni di gestione e spese relative al puro capitale circolante, che siano finalizzate allo stabilimento, al rafforzamento, all’espansione, ad attività di business nuova o esistente delle PMI del territorio.
Le domande devono essere presentate presso le Sedi Unicredit (l’elenco è disponibile qui), fino ad esaurimento fondi, e dovranno essere corredate di una serie di documenti tra cui un Business Plan che descriva il piano progettuale dell’impresa.

Per maggiori informazioni:

Napoli, 18/04/2013

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