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Tag: business

Inattention Blindness e Data Analysis: riesci a vedere le opportunità di business quando bussano alla tua porta?

Chris Briggs è il vice presidente per il marketing e il business development di Buxton, società texana che si occupa di Customer Analytics: ha pubblicato un interessante intervento su Harvard Business Review sul tema della “Inattention Blindness” nelle aziende, un fenomeno per il quale ci si concentra così intensamente su un particolare obbiettivo tanto da non riuscire a vedere particolari, opportunità e stranezze che potrebbero rappresentare un punto di svolta.

In particolare, per le aziende il problema della “Inattention Blindness” può far perdere di vista dei dettagli che potrebbero essere degli importanti fattori di differenziazione nel business, causando la perdita di opportunità che possono invece rappresentare occasioni di vantaggio competitivo.

L’esempio da cui parte Briggs è quello di un’azienda di vendita al dettaglio che, come alcuni concorrenti, si trova costretta a chiudere alcuni punti vendita perché un numero crescente di clienti stava spostando i propri acquisti (on-line o attraverso il catalogo). A differenza dei concorrenti, però, l’azienda in questione riesce ad intuire che chiudere un punto vendita poteva avere effetto negativo.

Come ha fatto a capirlo? Basandosi sull’analisi dei dati relativi ai clienti, e nello specifico sui numeri riguardanti gli acquisti di coloro che vivono in zone vicine ai negozi. L’azienda ha potuto capire da questi dati che i clienti visitano il punto vendita per vedere da vicino i prodotti in vendita, per poi andare a casa, confrontare altre opzioni e infine effettuare l’acquisto. Chiudere un punto vendita significa quindi privare i potenziali clienti del loro showroom: la conferma di questa intuizione è venuta ancora una volta dai dati, questa volta relativi al calo di vendite on-line e tramite catalogo riscontrato nelle aree in cui era stato chiuso un negozio.

Da queste analisi l’azienda ha potuto ottenere un duplice risultato positivo: prima di tutto, chiudere un numero di punti vendita minore rispetto a quello che sembrava originariamente necessario. Inoltre, aveva ottenuto un nuovo metodo di valutazione degli impatti positivi che il mantenimento dei punti vendita avrebbe fatto ricadere sulle vendite on-line.

Ecco che Briggs giunge ad un’importante conclusione sulla “Inattention Blindness”: concentrarsi su dati convenzionali riguardanti il comportamento d’acquisto dei clienti non consente di vedere le opportunità offerte dal mantenimento della rete di punti vendita. L’autore del post afferma che, a suo parere, meno dell’1% dei dati a disposizione di un’azienda sono realmente utili.

A questo punto la sfida diventa capire quali sono i dati che rientrano in quell’1%: e oggi, secondo Briggs, questa sfida è resa ancora più impegnativa a causa della disponibilità sempre maggiore di dati, numeri e statistiche. Elementi quali il continuo sviluppo dei Big Data, la crescente complessità dei dati, la disponibilità di accesso a nuovi dati sui clienti attraverso i dispositivi mobile rendono la differenziazione sempre più difficile per le aziende: per questo diventa fondamentale, secondo Briggs, imparare a comprendere e gestire i dati in maniera ottimale.

Aspetto interessante messo in luce da Briggs è che una corretta gestione dei dati sulla clientela porta vantaggio sia alle imprese che ai clienti: le prime possono prendere decisioni più efficaci ed efficienti, mentre i secondi possono beneficiare dell’offerta di prodotti e servizi sempre più vicini alle loro reali esigenze.

L’ultimo consiglio che Briggs offre ai lettori riguarda quindi il modo migliore per assicurarsi una corretta gestione dei dati: è fondamentale avere nel proprio team una persona con le skills giuste per analizzare i dati in maniera corretta. Ciò può essere semplice per una azienda già avviata, con un budget adeguato per il personale: per una startup o una piccola azienda con problemi di cassa, invece, la soluzione proposta da Briggs è quella di impegnarsi al massimo per conoscere bene i propri potenziali clienti, e lavorare in modo tale da sfruttare tali conoscenze per ottenere risultati ottimali in termini di redditività.

Briggs conclude dicendo che forse questo approccio non eliminerà del tutto il fenomeno della “Inattention Blindness” dall’azienda, ma sicuramente aiuterà a distinguere e cogliere più facilmente le opportunità quando si presentano alla porta, senza rischiare di non riuscire a vederle.

Napoli, 28/11/2013

Consigli alle startup: Quali sono le skills che un imprenditore di successo deve possedere?

Sujan Patel è founder e CEO di Single Grain, una delle più importanti agenzie di Digital Marketing con sede a San Francisco: con un post recentemente apparso sul sito Business2Community prova a delineare l’identikit del perfetto imprenditore, attraverso le skills che caratterizzano alcuni tra i migliori imprenditori della storia.

Secondo Patel, non esiste probabilmente un lavoro al mondo che richieda maggiori skills di quello dell’imprenditore: bisogna occuparsi di ogni aspetto dell’azienda, essere sì un visionario (come pensava Steve Jobs) ma anche un team leader, un project manager, un assistente amministrativo, un venditore e molto altro ancora.

Quali sono, quindi, le skills indispensabili per essere un buon imprenditore?

1. Never Be Satisfied

I migliori imprenditori non si accontentano mai dei risultati raggiunti: cercheranno sempre di migliorare e di innovare sè stessi e il proprio business. Mentre il resto del mondo pensa che i risultati raggiunti lo rendano un uomo di successo, l’imprenditore sta già pensando ai prossimi progetti da realizzare, che saranno più innovativi e sicuramente migliori di quelli già realizzati.

Esempio scelto da Patel per spiegare questa skill è Milton Hershey, fondatore della Hershey’s, la più grande azienda statunitense nella produzione del cioccolato. Fondata oltre un secolo fa, oggi vende i suoi prodotti sul mercato globale: ma non è da qui che è partito il suo fondatore. Nel 1900, infatti, Hershey ha venduto la sua prima azienda, The Lancaster Caramel Company, nonostante avesse un grosso successo. Secondo Patel, gli startuppers ed imprenditori dei giorni nostri dovrebbero imparare dal suo esempio proprio il fatto di non essere mai appagato dai risultati raggiunti, allo scopo di far raggiungere il top alla propria azienda.

2. Be Ambitious

Gli imprenditori non cambiano il mondo con piccole azioni: lo fanno attraverso progetti ambiziosi, che cambiano radicalmente lo status quo del mercato. Ecco perchè Patel definisce il “santo Graal” dell’imprenditore il prodotto/servizio definibile come “disruptive”, quello che cambia la visione del mondo delle persone.

Per spiegare questa skill, l’autore sceglie l’esempio di Mark Zuckerberg, fondatore di Facebook. Patel spiega che, con grossa probabilità, Zuckerberg non ha iniziato con il proposito di cambiare del tutto il mondo delle interazioni sociali trasportandole su internet. Ciò non toglie che, una volta intravisto il potenziale del suo progetto, l’ideatore di Facebook è stato ambizioso fino a trasformare il suo piccolo social network in un colosso che conta oggi milioni di iscritti.

3. Be Fearless

La paura non è d’aiuto a chi vuole iniziare il proprio business e portarlo al successo: certo, Patel ammette che a volte guidare un’azienda (soprattutto in fase di startup) può intimorire, ma bisogna assolutamente superare ogni timore per poter anticipare e cogliere le occasioni che porteranno un’azienda al successo.

E’ Sara Blakely, founder di Spanx (azienda di successo globale che ha rivoluzionato il mercato dell’intimo femminile), la scelta di Patel per dare un esempio reale ai lettori: quando la prima volta le è venuta in mente l’idea del suo prodotto principale, Sara non sapeva nulla di manifattura tessile, di processi produttivi e ancor meno di retail. Ma non ha lasciato che la paura la fermasse ed oggi è la più ricca e giovane imprenditrice nella storia.
Patel consiglia, quando si ha paura di qualcosa, di trovare un modo per superarla: la paura, infatti, può seriamente impedire al business di decollare, se non viene gestita correttamente.

4. Take Risks

Non è certamente una novità affermare che un imprenditore deve assumersi dei rischi: ma il punto che Patel vuole affermare, è che i migliori imprenditori non si assumono rischi a caso. Essi analizzano le situazioni e si assumono rischi dopo averli ben calcolati e considerati, senza esporre il proprio business a rischi inutili ma scegliendo solo le situazioni che possono portarli al successo.

E’ ciò che ha fatto Mark Pincus, founder di Zynga, famosa social gaming company milionaria: prima di fondare Zynga, Pincus si è assunto il rischio di rifiutare un finanziamento garantito per la sua prima azienda, Freeloader. Pincus ha preso questa decisione rischiosa perchè, acconsentendo, avrebbe dovuto assumere un CEO scelto dall’investitore. Il founder ha preferito assumersi il rischio di rifiutare il finanziamento, mandando a monte l’affare.

Alla fine, la scelta di Pincus si è rivelata vincente: è riuscito ad ottenere un finanziamento da un’altra fonte per Freeloader e in seguito a vendere la società per finanziare la startup Zynga.

5. Follow Your Intuition

Sicuramente chi ha una sorta di “sesto senso” innato è facilitato, ma ciò non toglie che gli imprenditori di maggior successo sono quelli che sanno seguire il proprio istinto, facendosi guidare nelle decisioni di business.

L’esempio più importante in questo caso è sicuramente Steve Jobs, una figura affascinante, che ha realizzato prodotti di successo ottenendo dei numeri impressionanti in termini di vendite. Secondo Patel è indubbio che il successo di Jobs dipenda in larga parte dalla sua capacità di affidarsi all’istinto, da cui dipende anche la sua famosa capacità di sviluppare prodotti che i clienti non avevano ancora realizzato di voler acquistare.

E’ il caso dell’iPad: prima del suo lancio sul mercato, il settore dei tablet si trovava in un momento di stagnazione. Ciò nonostante, Jobs ha lavorato duramente al suo prodotto, scatenando la curiosità dei clienti che inizialmente non erano interessati.
Lo stesso Jobs ha riconosciuto il ruolo fondamentale che le capacità intuitive hanno rivestito nel suo successo imprenditoriale: in un’intervista al New York Times, attribuiva lo sviluppo del suo intuito ad un viaggio in India quando aveva 19 anni.

“The people in the Indian countryside don’t use their intellect like we do, they use their intuition instead … Intuition is a very powerful thing, more powerful than intellect, in my opinion. That’s had a big impact on my work.”

6. Know Your Vision

Ultima skill fondamentale per l’imprenditore di successo è quella che permette, secondo Patel, di avere una propria visione del mondo e la voglia di trasformare la realtà secondo questa visione. Non accettano le cose così come sono, e lavorano per cambiarle.

Uno dei più grandi esempi di vision imprenditoriale è, secondo l’autore del post, Bill Gates: l’uomo che, assieme al suo socio Paul Allen, ha rivoluzionato il mondo dei computer lanciando il personal computer e il suo software.

Sarebbe stato impossibile fare una cosa del genere, senza una visione diversa e rivoluzionaria del computer rispetto a come era allora concepito: probabilmente, conclude Patel, non tutti gli aspiranti imprenditori e startuppers hanno una vision rivoluzionaria come la sua, ma ciò non significa che non debba essere una vision importante per sè stessi e per il proprio business.

Bisogna imparare a vedere ciò che ancora non c’è: si tratta probabilmente della più importante tra le skills che un imprenditore deve possedere per arrivare al successo.

Napoli, 21/11/2013

Come presentare al meglio una startup ai VC: i consigli di Tomasz Tunguz di Redpoint Ventures

Tomasz Tunguz è partner di Redpoint Ventures, società di venture capital californiana specializzata in startup tecnologiche. Tra i post del suo blog, uno dei più interessanti è dedicato agli strumenti per poter analizzare la propria startup con gli occhi di un investitore in meno di 15 minuti: qui, il link per leggere il post originale.

Nella sua esperienza di venture capitalist, Tunguz ha identificato tre strumenti a suo parere indispensabili per valutare una startup sulla quale investire:

1. Il Business Model Canvas, che permette di capire in maniera immediata ed efficace in che modo opera l’impresa;
2. Il modello delle 5 forze di Porter, grazie al quale è possibile valutare il livello di concorrenza che la startup si troverà a dover affrontare sul mercato;
3. La Value Chain Analysis, cioè l’analisi della catena del valore, per capire dove si inserisce l’azienda all’interno dell’ecosistema in cui opera.

Il primo strumento analizzato nel dettaglio da Tunguz è proprio il Business Model Canvas (BMC): si tratta di un modello molto famoso nel mondo delle startup, ideato da Alexander Osterwalder nel suo libro “Business Model Generation”. Il BMC è una modalità di rappresentazione che descrive le modalità di creazione del valore di un’azienda utilizzando un linguaggio visuale.
Si tratta di uno strumento particolarmente indicato per i business model di aziende innovative, per questo è molto utilizzato dalle startup. Il BMC si compone di 9 riquadri che rappresentano altrettanti elementi costituitivi di un’azienda: the Value Proposition, the Key (Operating) Activities, Partners, Assets/Resources, Customer Relationships, Go-To-Market Channels, Customer Segments, Cost Structure and Revenue Streams.
Grazie al BMC è possibile spiegare graficamente cosa offre il business, come l’azienda raggiunge i propri clienti e in che modo tutto ciò produce valore.

Per presentare una startup ai potenziali investitori, secondo Tunguz, sono altrettanto fondamentali gli altri due strumenti indicati dall’autore nel suo post: il modello delle 5 forze di Porter e la Catena del valore. Il consiglio di Tunguz è quello di unire questi due strumenti in un’unica matrice, che definisce “Grand Unifying Framework” (GUF).

Partendo dalla convinzione che per impostare correttamente il business di una startup è fondamentale capire in che tipo di mercato l’azienda si affaccia, Tunguz costruisce una matrice nella quale la catena del valore rappresenta le categorie orizzontali, mentre le cinque forze di Porter vanno a costituire le categorie verticali.

Di conseguenza, sull’asse orizzontale ritroviamo le attività/i processi primari e quelli di supporto, mentre sull’asse verticale le cinque forze competitive che Porter identifica in: Concorrenti diretti, Fornitori, Clienti, Potenziali entranti, Produttori di beni sostitutivi.

Il GUF consente, secondo Tunguz, di ottenere tre informazioni indispensabili per una startup che entra sul mercato: prima di tutto, identificare le attività che compongono la catena del valore. In secondo luogo, consente di capire quali sono le motivazioni che muovono tutti i giocatori coinvolti nell’ecosistema. Infine, la matrice offre la possibilità di vedere chi detiene il maggior potere e controlla il capitale all’interno del mercato.

Nell’ultima parte del post, infine, Tunguz suggerisce come utilizzare questi strumenti e cosa osservare in particolare per dedurre informazioni importanti.

Nella matrice GUF, per capire quale sia il giocatore con maggior potere (e, di conseguenza, che detta le leggi all’interno del mercato), bisogna guardare la colonna che contiene i clienti e fornitori con livello più basso di potere, nessun prodotto sostitutivo e la più alta barriera all’entrata. Inoltre, la matrice GUF consente di percepire immediatamente quanta concorrenza esiste per ciascun livello della catena del valore, osservando la riga dei concorrenti diretti.

Il BMC, invece, descrive il “go-to-market” di un’impresa: nel compilarlo, Tunguz suggerisce particolare attenzione alla Value Proposition (deve essere ben definita). Altri due aspetti fondamentali sono le Customer Relationships e la segmentazione dei clienti, seguiti dalla struttura dei costi dell’azienda. Quest’ultimo aspetto, infatti, determina il burn rate e i requisiti patrimoniali.

In chiusura del post Tunguz specifica che, per una startup in fase early stage, può essere difficile definire in maniera dettagliata tutte le aree del Business Model Canvas: ciò nonostante, esso rappresenta, assieme alla matrice GUF, uno strumento indispensabile per presentare il proprio business ad un potenziale investitore e devono essere curati al meglio.

Napoli, 15/11/2013

Startup Life Sciences e Healthcare: da Steve Blank all’evento Filarete Healthy Startups

Il settore Healthcare e delle Life Sciences è attualmente di grande interesse, soprattutto per quanto riguarda le innovazioni che le tecnologie digitali possono apportare a questo tipo di prodotti e servizi: se ne parla in un articolo pubblicato recentemente su xconomy.com e in uno degli ultimi post dal blog di Steve Blank, ma anche in Italia qualcosa si muove.

Ne è un esempio pratico l’organizzazione di Filarete Healthy Startups, la tre giorni organizzata dalla Fondazione Filarete, insieme a Fondazione Cariplo e Microsoft YouthSpark per analizzare e scoprire i trends e gli scenari di mercato del settore in Italia.

La riflessione sul tema parte da uno dei primi libri di Blank, “The Startup Owner’s Manual”, nel quale si sosteneva che il metodo per startup basato sul Customer Development elaborato dall’autore non fosse adatto alle aziende produttrici di dipositivi medici o biotech, e quindi al settore delle cosiddette Life Sciences.

La rapida iterazione di prodotto basata su metodi di sviluppo agile dei software, i continui aggiustamenti al modello di business basati sui feedback dei clienti, il cloud outsourcing per aumentare l’efficienza del capitale: tutte queste strategie vengono viste da Blank come in qualche modo totalmente inapplicabili al mondo delle Life Sciences e dell’Healthcare, dove i tempi per la sperimentazione in laboratorio dei prodotti richiedono tempi lunghi.

Le aziende che producono farmaci, dispositivi medici e strumenti diagnostici sono infatti bloccate da un processo di sviluppo lento, follemente costoso ed iper-regolamentato caratterizzato da un rischio elevato. Da questo punto di vista, secondo Blank non c’è da meravigliarsi che i venture capitalist si tengano fuori da questo tipo di business, e che i finanziamenti early-stage per startup nel settore Life Sciences siano così scarsi.

Ma, dopo aver lavorato con alcune startup del settore, Blank si pone oggi una domanda: e se si fosse sbagliato sulle startup Life Sciences? E se il vero problema fosse più semplice, e cioè che agli imprenditori del settore Life Sciences non è stato insegnato come collegare le proprie scoperte di laboratorio alle reali esigenze del cliente?

Nel libro “The Startup Owner’s Manual”, assieme al co-autore Bob Dorf, Blank scrive che esistono due tipologie di startup in fase iniziale: quelle costruite attorno al “customer/market risk” (dove il problema è capire se ci sono clienti interessati ad acquistare il prodotto) e quelle che gravitano attorno all’“invention risk” (dove ciò che conta è capire se il team sarà in grado di costruire un prodotto che funziona).
Dorf e Blank spiegano che l’approccio contenuto nel loro testo si adatta alla prima tipologia di startup, perchè per le seconde possono passare anche 5 o 10 anni prima di riuscire ad ottenere un prodotto che possa uscire dal laboratorio ed essere messo sul mercato (come ad es. nel settore delle biotecnologie).

Adesso, però, Blank sostiene di essersi reso conto, osservando gli attuali imprenditori ed investitori del settore Life Sciences, che quella contenuta in “The Startup Owner’s Manual” sia una svista: essenzialmente, Blank dice che il suo metodo può servire alle startup del settore Life Sciences a porsi in fase di early-stage una serie di domande riguardo il customer/market risk, per evitare di rendersi conto, dopo anni trascorsi a lavorare in laboratorio per scongiurare l’invention risk, di non avere un mercato per il proprio prodotto.

La soluzione proposta da Blank è la cosiddetta “evidence-based entrepreneurship”: basarsi sui dati osservati per capire come muoversi sul mercato.

Insomma, il suggerimento è quello di applicare il metodo Lean Startup anche alle neo-imprese del settore Life Sciences e sanitario, fermo restando che si tratta di settori complessi e con delle specificità ben precise: in ogni caso, Blank sostiene che la maggior parte dei fallimenti in questi settori poteva essere probabilmente evitato con uno studio approfondito del mercato di riferimento.

Per spiegare meglio le modalità di applicazione del Metodo Lean Startup al settore Life Sciences, Blank racconta quali sono stati i Pivot di alcune startup che ha seguito ultimamente in questo campo: ad esempio, alcune startup hanno apportato modifiche al prodotto/servizio a seguito di un’accurata analisi delle esigenze della clientela, altre invece hanno modificato la propria posizione nella catena del valore, trasformandosi in fornitori per gli ospedali anzichè vendere il proprio prodotto direttamente ai medici. Cambiamenti ancora più radicali sono stati effettuati da startup che hanno modificato la propria tecnologia di base (modificando del tutto la propria idea originaria), per affrontare al meglio le esigenze della clientela.

In tutti questi casi, i Pivot hanno consentito alle startup di evitare di arrivare sul mercato con un prodotto/servizio o con una strategia fallimentare.
La conclusione di Blank, quindi, è che il metodo Lean Startup sia assolutamente applicabile anche nelle startup Life Sciences ed Healthcare, e che debba funzionare proprio come gli scienziati testano le proprie ipotesi in laboratorio: ciò che bisogna fare in fase early-stage, per non incorrere in seguito in fallimenti, è uscire dal laboratorio e testare il proprio prodotto parlando con i clienti.

Per chi fosse interessato a sapere di più sulle startup e sull’innovazione nel settore Healthcare nel nostro Paese, in apertura del post si accennava all’evento Filarete Healthly Startups: l’evento, totalmente gratuito previa regstrazione al link http://filaretehsw.eventbrite.it/, si terrà a Milano dal 18 al 20 novembre.

Nei primi due giorni saranno analizzate insieme ai maggiori esperti del settore le opportunità e i trends di mercato dei settori Biomed, Pharma Food, Digital Health e App Marketing, ma la data da segnare in agenda per startuppers ed aspiranti imprenditori è il 20 novembre: durante questa giornata, interamente dedicata alle startup, si terranno infatti un Pitch Training per imparare a presentare la propria idea innovativa a potenziali investitori, mentre il pomeriggio sarà dedicato a “Filarete Healtlhy Startups – extended version”: un momento di incontro per presentare la propria startup a un pubblico di esperti, professionisti, manager e investitori specializzati nel settore.

Per maggiori informazioni, il sito internet dell’iniziativa è http://www.fondazionefilarete.com/it/filarete-healthy-startups-week

Napoli, 25/10/2013

Innovazione, Social Network e Open Data: il Progetto “Human Ecosystems”

Salvatore Iaconesi ed Oriana Persico hanno messo a punto un interessante progetto dal titolo “Human Ecosystems”, che raccoglie una famiglia di sotto-progetti tra cui i primi arrivati sono stati:

EC(m1): sviluppato in sinergia con il 1°Municipio di Roma ed il suo Assessorato alla Cultura, è un sistema tecnologico nato allo scopo di studiare l’Ecosistema della Cultura della città di Roma.

Innovation Ecology: presentato in occasione dell’Internet Festival 2013 di Pisa, il progetto rappresenta l’Ecosistema dell’Innovazione in Italia, suddiviso in base alle città principali del nostro Paese e ai temi chiave riguardanti l’Innovazione.

In entrambi i casi, Iaconesi e Persico hanno applicato una metodologia ecologica di osservazione dei dati provenienti dai contenuti pubblici dei social network: una vera fonte di preziose informazioni sulla nostra vita quotidiana, che opportunamente aggregate e riproposte sotto forma di Open Data possono essere utili ad operatori pubblici e privati per prendere decisioni, elaborare piani, comunicare, collaborare.

Per spiegare il progetto Human Ecosystems è utile partire dalla definizione del termine “ecosistema”: si tratta dell’insieme di esseri viventi ed entità non viventi che abitano un determinato spazio/tempo e delle relazioni che li collegano, osservati attraverso un approccio relazionale e metodologico tipico dell’ecologia. Tale approccio viene applicato in questo caso ai dati ricavati dai social network.

I dati raccolti ed osservati da Human Ecosystems vengono sottoposti ad un processo metodico che segue una serie di fasi ben precise, e fa larghissimo uso delle più moderne tecnologie.

1. Si identifica innanzitutto un territorio di riferimento per l’analisi;

2. Si procede alla raccolta dei dati, che non sarà mai invasiva della privacy in quanto prende in considerazione esclusivamente i contenuti pubblici. L’analisi deve essere necessariamente multi-linguistica: si pensi, ad esempio, che nell’esperimento condotto a Roma si trattava di una città in cui ogni giorno si parlano 18 lingue diverse.

3. La terza fase è la Natural Language Analysis: una complessa tecnica che consente di ottenere la comprensione del testo, lo stato emozionale sotteso a ciascun contenuto, il tema trattato.

4. Successivamente si procede con la Network Analysis: questo approccio restituisce informazioni riguardanti la geografia, la toponomastica umana e le relazioni che intercorrono tra gli utenti. In particolare, è interessante porre l’accento sull’analisi delle relazioni: questo aspetto consente di identificare il “ruolo” degli attori del sistema, che possono essere hubs, influencers, amplifiers, etc.

5. Una volta analizzati i dati, è possibile visualizzarli attraverso infoestetiche che rendono accessibili e usabili le informazioni. Per avere un’idea di come avvenga tale visualizzazione, trovate qui alcuni dei video e delle immagini proiettate durante l’Internet Festival di Pisa.

6. Il passaggio finale è anche il più importante e delicato dell’intero procedimento: ci si domanda in che modo è possibile utilizzare i dati per elaborare processi e strategie, cercando di trasformare i dati in informazione, conoscenza e infine in consapevolezza. In quest’ottica è fondamentale ricordare che i dati elaborati da Human Ecosystems sono restituiti alla comunità sotto forma di Open Data, rendendo fruibile a tutti un importante patrimonio informativo precedentemente di dominio dei policy makers o dei gestori delle grandi piattaforme social.

Osservando più da vicino i risultati visti a Pisa riguardo l’Ecosistema italiano dell’Innovazione (Fonte: IlSole24Ore), è interessante innanzitutto vedere quali sono i termini-chiave che rappresentano i temi estrapolati dalle conversazioni sui social network: Startup, Innovazione Sociale, Tecnologia, Makers & Sharing Economy, Innovazione, Business & Mercati, Ambiente.

“Tecnologia” è sicuramente la parola chiave dell’Innovazione in Italia: è la parola più ricorrente in città come Roma, Napoli, Torino, Bari e Cosenza.
Seguono i temi legati alle Startup (primo tema a Salerno e Pisa), all’Ambiente (primo a Catania e Palermo), all’Innovazione Sociale (Trento e Bologna).

Il sistema alla base di Human Ecosystems è pensato per aggiornamenti in tempo reale: per maggiori informazioni e per conoscere gli upgrade del progetto il link di riferimento è http://www.artisopensource.net/projects/human-ecosystems.html.

Napoli, 16/10/2013

Un anno negli USA con il programma Fulbright Best, per imparare come si gestisce una startup tecnologica

Fulbright Best (Business Exchange and Student Training) offre dal 2006 a giovani ricercatori con un’idea imprenditoriale innovativa la possibilità di studiare per un anno in una delle Università più prestigiose degli Stati Uniti d’America per imparare come lanciare una startup tecnologica: attualmente, in Italia hanno aderito al Programma la Toscana e l’Emilia Romagna, ma Fernando Napolitano, presidente di Fulbright Best Italy, ha annunciato la prossima adesione della Regione Campania al programma.

Grazie ad una Borsa di Studio fino a 35.000 dollari, il Programma Fulbright Best offre a giovani laureati e ricercatori la possibilità di frequentare per un anno corsi di formazione in Entrepreneurship e Management presso un università americana e un periodo di stage presso un’azienda USA ad alto potenziale di crescita.
I corsi accademici saranno incentrati su temi quali l’imprenditorialità innovativa, il marketing, la finanza e la gestione aziendale.

Riguardo ai campi di ricerca, il Programma Fulbright Best si rivolge a ricercatori nei seguenti ambiti:

– ICT,
– Biotech,
– Tools and Machinery,
– Energy and Green Technology.

L’obiettivo del Programma Fulbright Best è quello di offrire ai giovani scienziati italiani con un progetto innovativo di trasferimento tecnologico la possibilità di acquisire negli Stati Uniti le competenze necessarie a fondare la propria startup innovativa.

Al ritorno dai 12 mesi negli USA, inoltre, i partecipanti al Programma saranno seguiti durante un percorso di mentoring che potrà intraprendere due differenti binari:

1. STARTING UP
E’ il programma riservato a chi ha già costituito un’azienda o prevede di crearla entro i successivi 24 mesi. Tra le attività di mentoring, sarà dato particolare risalto alla valutazione del business plan e alla definizione degli obbiettivi; al supporto per l’identificazione del prodotto (in termini di mercato, modello di business, competitors, vantaggio competitivo, possibili fonti di finanziamento); partecipazione ad eventi ed iniziative di networking; presentazione del business plan a potenziali investitori; partecipazioni a Competition quali Mind the Bridge, Premio Nazionale Innovazione, etc.

2. COACHING
Si tratta del programma riservato a coloro che intendono avviare altri percorsi professionali che esulano dalla creazione di una startup. Le attività di mentoring saranno finalizzate alla valutazione e definizione degli obbiettivi e dei piani professionali individuali, anche attraverso la partecipazione a eventi ed iniziative di networking.

Riguardo ai requisiti di accesso alle borse di studio Fulbright Best, possono presentare richiesta laureati (vecchio ordinamento o laurea magistrale), studenti del Dottorato di Ricerca o Dottori di ricerca che abbiano conseguito il titolo in Italia, preferibilmente da non oltre 5 anni. Sarà data preferenza, inoltre, a titoli conseguiti in discipline scientifiche e tecnologiche.

I partecipanti al Programma Fulbright BEST devono essere in possesso di certificazione TOEFL (con punteggio minimo di 72-73) o IELTS (con punteggio non inferiore a 6.0) che attesti la buona conoscenza della lingua inglese.

Per maggiori informazioni è possibile consultare:
http://bestprogram.it/
http://www.fulbright.it/it

Napoli, 14/10/2013

L’importanza della comunicazione nel business: l’equità, la ragionevolezza e l’ingiustizia percepita dal cliente

Il blog della Harvard Business Review ha pubblicato un articolo firmato da N. Taylor Thompson, membro del Forum per la Crescita e l’Innovazione, una think tank della Business School di Harvard che si occupa di sviluppare e perfezionare la teoria sulla disruptive innovation.

Tema centrale dell’articolo è la Fairness, che possiamo tradurre in italiano con il concetto di equità ed imparzialità: l’autore cerca di spiegare come la Fairness sia fondamentale per un’azienda perchè consente di mantenere i clienti.

Punto di partenza di N. Taylor Thompson è l’esempio di Netflix: si tratta di un’azienda statunitense che offre un servizio per film e videogiochi in streaming o noleggio DVD con spedizione per posta. Nel luglio 2011, Netflix ha deciso di separare i suoi prodotti streaming e DVD: tale mossa strategica è stata, secondo N. Taylor Thompson, da manuale, in quanto basata su una decisione informata e in grado di portare vantaggio sia all’azienda che alla clientela.

Netflix, infatti, aveva raccolto i dati sul valore attribuito dai clienti alle due modalità: considerato un abbonamento mensile di 10$ per tutti i clienti i due servizi (DVD e streaming) venivano valutati in maniera differente. Il 35% attribuiva al DVD un valore pari a 10$ e allo streaming un valore di 2$, viceversa un altro 35% attribuiva allo streaming un valore pari a 10$ e al DVD un valore pari a 2$, mentre il restante 30% attribuiva ad entrambi i servizi un valore di 8$ ciascuno.
Il ragionamento seguito da Netflix fu il seguente: fissando un prezzo pari ad 8$ per ciascun servizio, il 70% dei clienti avrebbe ottenuto un vantaggio e la nuova segmentazione della clientela avrebbe visto i “Cinefili” pagare 8$ solo per i DVD, i “Youtubers” pagare 8$ solo per lo streaming, e i “Cinefili impazienti” pagare 16$ per usufruire di entrambi i servizi.

Ma l’esperienza di Netflix ha portato ad un risultato differente: furono revocati molti abbonamenti e la società perse un milione di clienti. N. Taylor Thompson cerca di spiegare perchè, nonostante la strategia seguita fosse “da manuale”, l’azienda si trovò a dover affrontare un enorme insuccesso: il problema sta nel non aver tenuto conto della percezione del cliente.

Il comportamento di Netflix è stato interpretato dalla clientela come non equo, scorretto, perpetrato esclusivamente allo scopo di trarre profitto a spese dei consumatori: la decisione di annullare gli abbonamenti, secondo l’autore, non era basata su un calcolo razionale bensì sulla voglia di “punire” Netflix per essere stata, a loro parere, colpevole di scorrettezza.

N. Taylor Thompson sostiene che i dirigenti di Netflix avrebbero potuto prevedere questa reazione se, oltre alle leggi dell’economia e del mercato, avessero tenuto conto della psicologia e della sociologia: vediamo in che modo.
Bisogna partire dal fatto che i clienti tendenzialmente sottovalutano i costi aziendali e sovrastimano i profitti: attribuiscono le differenze di prezzo tra prodotti esclusivamente al profitto, concludendo che gli aumenti sono ingiusti (si parla di “ingiustizia percepita”).

Secondo la percezione dei clienti, l’unica motivazione per la quale è giusto aumentare i prezzi è l’aumento dei costi: l’aumento del prezzo di fronte alla crescita della domanda è visto come ingiustificato, e in generale un aumento dei prezzi è visto come la spia di cattive intenzioni e comportamento ingiusto da parte dell’azienda.

L’ingiustizia percepita fa diminuire la soddisfazione del cliente e la sua voglia di ricomprare il prodotto, inoltre è stato dimostrato che circa l’85% delle persone tendono a punire l’ingiustizia: è sulla base di questo meccanismo che i clienti di Netflix hanno disdetto i propri abbonamenti.

Queste “regole” di psicologia e sociologia diventano fondamentali per l’impresa perchè possono essere trasferite dall’ambito personale a quello aziendale: per diminuire l’ingiustizia percepita, Netflix avrebbe dovuto spiegare in modo trasparente la motivazione alla base dell’aumento dei prezzi, ponendo l’accento proprio sul fatto che la decisione era stata presa sulla base dell’equità, della Fairness.

Secondo N. Taylor Thompson, Netflix avrebbe dovuto motivare la propria decisione spiegando che i costi di licenza per i contenuti in streaming sono in aumento, e che non sarebbe stato equo far pagare tali rincari anche agli utenti di DVD: separare i costi dei servizi consente a ciascuno di concentrarsi sulla tipologia di servizio che preferisce.

In conclusione, il consiglio di N. Taylor Thompson è quello di dare sempre una motivazione che faccia capire al cliente che alla base dell’aumento dei prezzi non c’è intenzione di causare iniquità tra i clienti nè tantomeno di aumentare i profitti aziendali a loro discapito: l’importante è dimostrare di essere ragionevoli, e non incorrere nell’errore di trascurare le implicazioni della Fairness sulla gestione del business.

Napoli, 10/10/2013

A Napoli la seconda edizione di AdottUp: deadline il 10 ottobre 2013

Dopo la chiusura delle selezioni il 6 settembre per la prima edizione, Adottup è alla ricerca di startup da inserire nel suo secondo percorso formativo: le candidature sono aperte fino al 10 ottobre 2013 ed il percorso formativo si terrà a Napoli.

Il percorso di Adottup a Napoli partirà nel weekend del 9 e 10 novembre e proseguirà per i tre weekend successivi: gli argomenti trattati, come per l’edizione milanese di settembre, saranno organizzati in moduli.

In particolare, il percorso formativo prevede i seguenti moduli:

BUSINESS IDEA: Dalla business idea al business model;
BUSINESS MODEL: Business modelling;
LEGAL: Legal & Contracts, Protezione della proprietà intellettuale;
MARKETING: Market & Go to Market, Digital Marketing;
ECONOMICS: Business Plan.

Vi ricordiamo che Adottup nasce da un’iniziativa di Piccola Industria Confindustria in collaborazione con OFF – Officine Formative e si basa su un programma di adozione delle startup in tre fasi:

1. Le startup inseriscono la propria idea di business sul portale on line, in maniera totalmente gratuita previa registrazione a questo link: http://officineformative.it/adottup/

2. Le startup selezionate partecipano al percorso formativo di OFF – Officine Formative, che integra formazione in aula con grandi esperti del settore e moduli interattivi on line.

3. Le migliori idee saranno inserite da Confindustria nell’elenco delle startup “adottabili” dalle oltre 150.000 aziende iscritte, permettendo alle startup adottate di usufruire di servizi, competenze, risorse in termini di organizzazioni, strutture e tecnologie, network e canali commerciali ed eventuale supporto finanziario.

Per saperne di più su Adottup, trovate qui il nostro approfondimento sull’iniziativa.

Inoltre, è possibile scrivere ad adottup@confindustria.it e consultare il Vademecum dell’iniziativa a cura di Confindustria.

Napoli, 08/10/2013

Il Programma COSME 2014-2020: dall’UE, nuovi strumenti a sostegno di startup e PMI

COSME 2014-2020 è il Programma dell’Unione Europea nato con l’obbiettivo di incrementare la competitività a livello internazionale delle piccole e medie imprese del territorio comunitario.
Il Programma COSME si pone in un’ottica di continuità con le azioni e le iniziative già intraprese nell’ambito del Programma EIP (Programma per l’Imprenditorialità e l’Innovazione), con la finalità di semplificare l’accesso al programma da parte delle imprese europee e di sostenere, coordinare ed integrare le azioni in materia intraprese a livello dei singoli Stati Membri.

Tra gli scopi perseguiti, ritroviamo innanzitutto facilitare l’accesso al sistema dei finanziamenti per le PMI, la creazione di un ecosistema favorevole alla creazione e alla crescita di nuove imprese, lo sviluppo di una nuova cultura imprenditoriale diffusa in Europa, la crescita della competitività in un’ottica sostenibile e il miglioramento dell’accesso ai mercati internazionali per imprese di piccole dimensioni.

Gli strumenti di cui si avvale COSME per raggiungere tali obbiettivi sono sostanzialmente cinque:

1. Strumenti finanziari dedicati alle PMI per facilitare l’accesso al sistema dei finanziamenti: è previsto un sistema di agevolazioni specifico per le varie fasi del ciclo di vita delle aziende, in particolare per le startup, con prestiti fino a 150.000 euro per tutte le PMI, gestito dal Fondo Europeo per gli Investimenti.

2. La rete di servizi alle imprese “Enterprise Europe Network”: riunisce oltre 600 organizzazioni da 60 paesi per fornire informazioni e servizi di qualità nel campo del sostegno alle imprese, per favorirne la competitività.

3. Sostegno all’Imprenditorialità: azioni di sostegno alle imprese per favorire i network transnazionali e lo scambio di best practices, oltre che per individuare le possibilità di ampliamento delle attività di business. Tra i target specifici, ampio spazio sarà dato alle azioni dirette all’imprenditoria giovanile e femminile.

4. Migliorare le condizioni per la competitività e sviluppare politiche a favore delle imprese: verrà effettuata un’accurata analisi dell’ecosistema imprenditoriale europeo per facilitare il lavoro dei policy makers a livello nazionale e locale, basato sui dati delle performance e delle politiche di ciascuno Stato Membro e sulle ultime tendenze di alcuni settori dei mercati a livello europeo e globale. Inoltre, è prevista l’organizzazione di una serie di conferenze ed altri eventi per diffondere le conoscenze e le informazioni, per formulare proposte e per favorire la cooperazione tra Stati Membri in tema di promozione dell’imprenditorialità.

5. Internazionalizzazione delle PMI: attraverso il Programma COSME saranno forniti alle PMI servizi di supporto per facilitare l’espansione delle attività di business sia nel mercato unico europeo che nei mercati esteri (tra gli esempi di servizi gratuiti, ricordiamo l’IPR Helpdesk per la Cina).

Nelle previsioni della Commissione Europea, l’impatto del Programma COSME porterà ad un aumento del PIL dell’UE di oltre un miliardo di euro l’anno, con la creazione e/o salvaguardia di circa 30.000 posti di lavoro, la nascita di circa 12.000 nuove imprese e un aumento del fatturato delle imprese assistite dal programma pari a circa 400 milioni di euro l’anno.
Tutto ciò sarà reso possibile grazie alla dotazione di 3,5 miliardi di euro prevista dal Programma COSME e destinata al finanziamento delle imprese sotto forma di prestito e/o di investimento.

Le proposte della Commissione Europea per il Programma COSME saranno valutate entro la fine del 2013 dal Parlamento e dal Consiglio Europeo, mentre il Programma destinato alle PMI dovrebbe partire il 1°gennaio 2014.

Per maggiori informazioni su COSME, il link ufficiale di riferimento dal sito della Commissione Europea è http://ec.europa.eu/cip/cosme/

Napoli, 01/10/2013

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