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Tag: vision

Consigli per startup early stage: come presentare il pitch ad un business angel o a un venture capitalist?

L’incontro con potenziali investitori rappresenta un momento chiave per una startup in fase early stage: Inc.com ha pubblicato qualche tempo fa un’interessante vademecum utile per capire quali sono gli step essenziali per sfruttare al meglio l’occasione e presentare il proprio pitch in maniera efficace per convincere un business angel o un venture capitalist.

La guida si apre con il punto di vista sull’argomento di Mike Levinson, co-founder di DreamIt Ventures, programma di accelerazione per startup di Philadelphia: “Non andare oltre la prima base se non sei in grado di affrontare le quattro aree“. Secondo Levinson, infatti, un potenziale investitore focalizza la propria attenzione su quattro punti essenziali:

1) La business idea è abbastanza semplice perché io possa comprenderla e decidere di investire in essa?
2) La business idea risolve un problema o soddisfa un bisogno?
3) Esiste un mercato o una base di clientela abbastanza grande per la business idea?
4) L’imprenditore che propone l’idea ha le persone giuste nel team per realizzarla?

In sostanza, quando un founder incontra un business angel o un venture capitalist cerca di vendere la propria vision e il proprio team. Occorre però tener presente una differenza: gli angel tendono ad essere più interessati ad ascoltare una storia dietro all’idea, alle emozioni che essa può suscitare, mentre il venture capitalist solitamente presta maggiore attenzione ai numeri, le prestazioni e la traction.

Riguardo ai contenuti essenziali da inserire nel pitch agli investitori, bisogna innanzitutto avere un business plan con una strategia di marketing ben definita e solidi dati di bilancio. Ma ciò che può davvero fare la differenza quando si tratta di ottenere un finanziamento, è il modo di presentarsi, di parlare, e quali sono le informazioni aggiuntive che il pitch contiene.

Vediamo quindi alcuni consigli fondamentali che la guida di Inc.com offre ad aspiranti imprenditori per preparare e presentare il proprio pitch agli investitori:

– Alcuni investor sono molto attenti a cercare l’entusiasmo che gli startupper mettono nel proprio lavoro: la passione è quindi un aspetto fondamentale e che “non si può fingere”, come afferma Barbara Corcoran (investor e magnate nel settore immobiliare).

– Uno degli errori più frequenti dei founder che presentano il proprio pitch è quello di spendere troppo tempo a spiegare la tecnologia o il prodotto anziché focalizzarsi sulle motivazioni per cui un investitore dovrebbe finanziare la startup. Quando incontrano una startup, i potenziali investor partono dal presupposto che la tecnologia funzioni: meglio concentrare la presentazione sui dati, sui numeri, sul patrimonio netto. Qualora l’investitore abbia dei dubbi sulla tecnologia o sul prodotto sarà egli stesso a fare delle domande.

– Un aspetto spesso trascurato è il modo in cui ci si presenta agli investitori: la prima impressione, il primo sguardo, contano molto per costruire la fiducia. Occorre quindi fare attenzione a presentarsi ben curati, mantenere il contatto visivo diretto con l’interlocutore, controllare alcuni aspetti della comunicazione non verbale. Ad esempio, alcuni gesti da evitare sono mettere le mani in tasca o torcersi le dita: si tratta di gesti che tradiscono l’ansia e il nervosismo, mentre è importante dimostrare una certa sicurezza.

– La chiarezza è fondamentale: occorre esprimersi in maniera concisa ma efficace, trasmettendo la passione e l’entusiasmo del team. Occorre comunicare chiaramente l’idea, il mercato, i fattori distintivi, le basi del successo finanziario e perchè si dovrebbe investire nell’idea.

– Presentare il pitch con una presentazione PowerPoint di 12 slide è piuttosto standard, soprattutto per una startup nel settore tecnologico. Se c’è un prototipo funzionante è una buona idea quella di mostrarlo agli investor durante l’incontro, in modo da mostrare effettivamente come è fatto il prodotto e come dovrebbe funzionare. Ancora, un punto in più potrebbe essere presentare dati sulle vendite e gli ordini previsti, e risultati di ricerche di mercato, sondaggi, focus group e test di prodotto.

– Un altro aspetto importante è prepararsi ad anticipare le domande che gli investitori potrebbero porre. Alcuni esempi sono: Quanto è grande il vostro mercato? Chi sono i vostri concorrenti? Perchè il vostro prodotto è migliore di quello che è già sul mercato? Qual è la vostra strategia di acquisizione di nuovi clienti? Allo stesso tempo, è importante essere pronti a fornire strategie alternative, una sorta di “piano B” qualora la strategia ufficiale non dovesse permettere il raggiungimento degli obiettivi. Inoltre, quando un investor pone una domanda, è importante mostrarsi calmi e sicuri di sè, prendendosi il tempo per riflettere prima di rispondere. In questo modo si dimostra anche la propria capacità di reagire in maniera efficace e costruttiva quando di è sotto pressione.

– E’ inoltre fondamentale avere già pronta una exit strategy. L’investitore deve sapere come guadagnerà in futuro i propri soldi, forndendo proiezioni a uno e a tre anni. Occorre inoltre tener presente che la maggior parte degli investimenti di business angel restano nel capitale sociale per circa 7/8 anni, prima di procedere con l’exit e vendere ad un’altra compagnia.

– Tenere sempre presente che alcune delle motivazioni più comuni per respingere un accordo tra investor e startup sono: valuation troppo alta, team con poca esperienza, mancanza di vantaggio competitivo, potenziale di crescita insufficiente, indebitamento troppo alto.

– Infine, non pensare che perché il pitch è andato bene, e l’investitore sembra disposto a finanziare il business, l’affare sia ormai concluso: la parte difficile inizia proprio nella fase di follow-up. E’ fondamentale in questa fare mantenere i contatti per ottenere prima possibile un secondo incontro e, al momento di rivedersi, chiedere un accordo scritto. Naturalmente è necessario presentarsi al secondo incontro con la risposta a tutti i dubbi, le domande e le preoccupazioni che l’investor aveva sollevato e avere a disposizione il business plan e i documenti necessari a sottoscrivere l’accordo.

Per leggere l’articolo originale da cui è tratto questo post: http://www.inc.com/guides/2010/10/how-to-pitch-to-angel-investors.html

Napoli, 29/05/2014

Consigli alle startup – Il pitch per gli investitori e quello per i clienti: due modi differenti per raccontare il business

Mark Birch è un tech investor e imprenditore newyorkese, CRO di una tech startup (Enhatch) e autore del blog Strong Opinions (il blog di Birch Ventures per la community newyorkese di startup tecnologiche): uno dei suoi più recenti post affronta il tema della differenza tra Investor Pitch e Customer Pitch, partendo dal presupposto di base che utilizzare lo stesso pitch per presentarsi sia agli investitori che ai clienti è una mossa che molto raramente funziona a dovere.

Il motivo fondamentale è che investitori e clienti hanno motivazioni ed interessi differenti: pertanto, guardano il pitch da diversi punti di vista. Ne consegue che lo stesso pitch non è utilizzabile per entrambi: occorre costruire un pitch “su misura” per ciascuna delle due “categorie di pubblico” cui la startup si rivolge.

Gli investitori, infatti, sono alla ricerca di grandi opportunità di mercato, che possano comportare un significativo ritorno in termini di capitale. Il discorso dal punto dell’investitore è sintetizzato da Birch in questo modo: Team Market Product Traction Investors. Occorre dimostrare all’investitore che c’è un bisogno da soddisfare, che il team è in grado di ottenere il prodotto/servizio per soddisfarlo, che c’è un mercato per tale prodotto/servizio e calcolare se tutto ciò possa giustificare un investimento. In altre parole, occorre che il pitch sia in grado di dare all’investitore i dati, i numeri in modo tale che egli possa calcolare se investire o meno nella startup.

I clienti, invece, hanno un problema da risolvere o un bisogno da soddisfare. Per i clienti, le dimensioni del mercato sono assolutamente irrilevanti. La traction può essere un argomento appena interessante, ma sicuramente non importante per loro. Il team può essere leggermente più rilevante, ma in ultima analisi l’unica cosa che interessa ai clienti è cosa fa il prodotto e in che modo risolve il bisogno. Ed è proprio su questo aspetto che occorre concentrarsi quando si comunica con i clienti.

Birch spiega di aver provato a modificare il pitch che aveva sviluppato per gli investitori cercando di adattarlo ai clienti: eliminando un paio di slide e modificandone altre, però, ha ottenuto semplicemente una presentazione poco efficace perché totalmente svuotata dagli aspetti relativi la passione e la vision aziendale. Questa è, secondo l’autore del post, la cosa peggiore che si possa fare: non è possibile vendere senza questi elementi, che sono la forza ed il valore intrinseco di una startup.

Ecco quindi la conclusione di Birch: occorre preparare separatamente due pitch, uno per gli investitori ed uno per i clienti. Occorre inoltre farlo in momenti differenti, vincendo la tentazione di sfruttare alcune diapositive per entrambi i destinatari semplicemente apportando delle piccole modifiche.
E’ importante lavorare ad entrambi i pitch tenendo ben presenti gli aspetti fondamentali per coloro cui è destinato, cercando di guardare con i loro occhi e raccontando una storia differente in ciascuno dei due pitch: la stessa storia vista da due diverse angolazioni.

Il post originale da Strong Opinions è disponibile al seguente link: http://birch.co/post/81359224501/investor-pitches-vs-customer-pitches

Napoli, 02/05/2014

Quali sono gli errori più frequenti per una startup alle prese con il fundraising?

Sam Altman è un imprenditore, attualmente presidente di Y Combinator e precedentemente co-founder e CEO della startup Loopt, applicazione mobile per il social networking, acquisita nel 2012 dalla Green Dot Corporation.

In un post pubblicato qualche tempo fa sul suo blog, Altman ha analizzato una fase fondamentale per una startup in crescita: la fase del fundraising. L’obiettivo del suo post è quello di individuare alcuni degli errori più frequenti che i founder di una startup possono fare quando si affacciano alla fase di fundraising.

1) Rendere il processo “iper-ottimizzato”

Moltissimi founder cercano strade difficili per la raccolta di capitali, mettendo spesso in pratica dei “trucchi” che pensano siano utili ma in realtà non fanno che complicare le cose. In realtà, scrive Altman, è tutto piuttosto semplice: se l’azienda funziona bene, otterrà dei buoni risultati in termini di fundraising. L’unica strada da percorrere, quindi, è quella di lavorare per migliorare il più possibile l’azienda, il suo funzionamento e i suoi risultati.

Il processo di fundraising, infatti, è molto semplice: innanzitutto bisogna trovare il modo di ottenere un incontro con i potenziali investitori. Dopodichè, occore spiegare loro in che modo la startup può riuscire a fargli ottenere guadagni elevati. Ciò significa spiegare agli investitori la mission aziendale, il prodotto, la traction, la visione futura, il mercato, la concorrenza, quale sarà il vantaggio competitivo nel lungo periodo, come hai intenzione di ottenere dei ricavi e come si compone il team.

Occorre riuscire a implementare un vero e proprio ambiente competitivo: le migliori condizioni in termini di raccolta capitali si ottengono quando più investitori sono in concorrenza tra loro per finanziare una startup. Secondo Altman, è questa l’unica “regola del gioco” valida.

Non bisogna, quindi, ricorrere a piccoli e grandi trucchi: l’unica strada percorribile è quella di lavorare sodo per far funzionare il business nel migliore dei modi, gli investitori decidono di finanziare una startup solo se sentono di poterlo fare con fiducia.

2) Numeri, richieste e valutazioni troppo alti

Quando si cerca di ottenere dei finanziamenti, è importante mantenere quelli che Altman definisce “clean terms”: spesso le startup alla ricerca di capitali tendono infatti a valutare per eccesso i numeri, facendo richieste più elevate di quanto sia realmente necessario.

Alla base di questo errore c’è la convinzione dei founder di “impressionare” i potenziali investitori: in realtà questo atteggiamento allontana gli investors, mentre chiedere semplicemente ciò di cui si ha effettivamente bisogno è l’atteggiamento vincente nel fundraising.

3) Non riuscire a creare un ambiente competitivo

Si tratta di una fase critica del “gioco” del fundraising. Come accennato più sopra, secondo Altman è fondamentale mettere “in competizione” più potenziali investitori.

La parte più difficile da gestire è sicuramente quando arriva la prima offerta: una volta ottenuta un’offerta, infatti, se non ne arrivano altre in tempi stretti si corre il rischio di voler aspettare troppo ad accettare (in attesa che altri investitori facciano una proposta) e di perdere quella che potenzialmente potrebbe essere una buona opportunità.

La cosa migliore, sarebbe trovare un investitore che ama davvero ciò che la startup sta facendo e che sia totalmente disposto a finanziarla: quando c’è una prima offerta di questo tipo, la startup può aspettare più tranquillamente e cercare di ottenere altre offerte.
Naturalmente occorre ricompensare il primo investitore, assicurandogli priorità o quanto meno la sicurezza di rientrare nel round di investimento.

Quando si riesce a creare un buon ambiente competitivo tra potenziali investitori, il processo di fundraising diventa davvero in discesa e spesso anche chi in precendenza non aveva mostrato interesse a finanziare il progetto inizia a considerare un possibile investimento.

4) Presentarsi agli investitori in maniera arrogante, irrispettosa, ecc.

Presentarsi ai potenziali investitori con un’aura da “nerdy founder” è un vezzo inutile e controproducente: occorre essere sempre rispettosi quando si incontrano gli investors. Questo significa, avverte Altman, che non bisogna mai pretendere una decisione dopo il primo incontro (a meno che non si stia davvero per chiudere il round di finanziamento).

Altman consiglia di ricordare sempre che gli investitori sono persone che vogliono essere amate, bisogna fargli sapere che si desidera davvero lavorare insieme a loro per renderli più inclini ad investire nella vostra startup.

5) Non ascoltare

Gli investitori sono preoccupati di non rischiare di perdere i propri capitali, mentre i founder sono persone ottimiste per eccellenza. Questo significa che, molto spesso, quella che per un investor è una versione “carina” di un no viene recepita dal founder come un “con un paio di ulteriori incontri, possiamo arrivare ad un sì”.

Bisogna imparare ad ascoltare con molta attenzione, e capire se è il caso di insistere ulteriormente o è più saggio e fruttuoso andare avanti e incontrare altri potenziali finanziatori.

6) Non avere un “lead investor”

Altman spiega che spesso i founder che raccolgono capitali da più investitori si compiacciono del fatto che nessuno di questi ha un particolare “potere” rispetto agli altri. La realtà, però, è che un investitore con poco potere nelle aziende che finanzia non si sente veramente coinvolto e non si adopera per il successo della startup.

Sarebbe invece davvero utile avere un “lead investor”, con il quale organizzare regolari incontri mensili per metterlo al corrente dei progressi: questi incontri fissi creano infatti una tensione positiva nella startup, soprattutto a livello operativo e di raggiungimento dei risultati prefissati.

7) Avere un pitch scarno

Spesso i founder si fanno prendere dalla voglia di seguire alla perfezione un template, spiegando tutto ciò che sanno sui concorrenti, sull’evoluzione del mercato, ecc. Ma altrettanto spesso, sono i primi ad annoiarsi e questa noia è palese anche all’esterno.

Il consiglio di Altman per un pitch vincente da presentare agli investitori è quello di concentrarsi sulle parti del business che davvero ti entusiasmano: ciò renderà entusiasti anche gli investitori. Trasmettere la passione per il proprio business è fondamentale, ed è quasi impossibile mentire a riguardo.

Gli investitori vogliono ascoltare una vera e propria storia, che racconta come il team ha deciso di lavorare all’idea, come si sono incontrati i co-founder, ecc.: sono aspetti da non tralasciare nel proprio pitch.

Inoltre, gli investitori intelligenti sono alla ricerca di progetti che possano realmente avere successo: occorre quindi concentrarsi sugli aspetti fondamentali che facciano capire che si sta davvero costruendo una grande azienda.

8) Non chiedere delle referenze sugli investitori

I grandi investor possono apportare una quantità enorme di valore aggiunto, nella stessa misura in cui i cattivi investitori possono rendere davvero la vita difficile ai founder di una startup: ecco perché Altman succerisce di chiedere sempre informazioni a chi ha già ottenuto finanziamenti, cercando di ottenere delle vere e proprie referenze sugli investitori con cui ci si prepara a collaborare.

9) Non avere una vision sufficientemente chiara

Se non si è fermamente convinti di ciò che si fa, e si è sempre d’accordo con i suggerimenti dell’investitore, significa che la vision della startup non è sufficientemente chiara. Altman sostiene che, pur dovendo sempre ascoltare ciò che l’investitore ha da dire, si dovrebbe rimanere sempre fermi su ciò in cui si crede davvero.

I founder che hanno una vision aziendale chiara riescono a spiegare ciò che stanno facendo e perché il loro progetto è importante in poche e semplici parole: una vision chiara implica solitamente una grande idea. Fermo restando che esistono sempre delle incognite: anche se non è possibile avere tutte le risposte, prima di iniziare la fase di fundraising è fondamentale avere una vision chiara.

10) Non conoscere le metriche chiave

Le possibili domande degli investitori per una startup in fase di early stage sono essenzialmente due: “Il team sa cosa fare?” e “Il team è in grado di farlo?”.
La risposta alla prima domanda è nel punto 9: occorre avere una vision aziendale chiara e definita.
Per la seconda domanda, invece, occorre essere in grado di dimostrare la qualità operativa attraverso i numeri e le metriche chiave: Altman afferma che è davvero sorprendente come spesso le aziende si rivolgano ai potenziali investitori senza conoscere queste informazioni.

Per leggere il post originale di Sam Altman: http://blog.samaltman.com/fundraising-mistakes-founder-make

Napoli, 17/04/2014

Consigli alle startup: come gestire le attività in Outsourcing?

In uno dei più recenti articoli apparsi su Tech in Asia, Terence Lee (giornalista di Singapore, esperto in startup e tecnologia) raccoglie i consigli fondamentali sulle possibilità e modalità di outsourcing per le startup raccolti in occasione di una recente tavola rotonda organizzata da Startup Jobs Asia, alla quale hanno partecipato come relatori: Michael Cheng (web developer e startupper), Jeffrey Paine (partner di Golden Gate Ventures), Brendan Goh (founder di Pirate3D, startup nel settore della stampa 3D) e Jaryl Sim (dell’agenzia di web development Tinkerbox).

Il tema dell’outsourcing rappresenta una delle prime decisioni fondamentali che una startup si trova a dover affrontare, non tanto per capire se esternalizzare o meno alcune attività, quanto per stabilire quali attività esternalizzare e in che modo farlo.
Il post di Terence Lee si propone di riassumere ed elencare i punti più interessanti del dibattito.

1) Sai cosa stai facendo?

Tutti i relatori si sono detti d’accordo sul fatto che una startup molto giovane, agli inizi del suo percorso, spesso non ha ben chiara la strada da percorrere per realizzare la propria idea imprenditoriale: in questi casi, affidare alcune attività all’esterno ricorrendo all’outsourcing potrebbe essere la strada più giusta da percorrere.

Assumere dei dipendenti quando non si è ancora sicuri dei futuri passi della propria startup è infatti un rischio, che si traduce in un possibile spreco di risorse qualora la persona assunta dovesse ritrovarsi in realtà a non poter far nulla. L’outsourcing è invece un’ottima modalità per capire se c’è bisogno di svolgere determinate attività e, di conseguenza, se è necessario assumere qualcuno che se ne occupi.

Le startup più mature, invece, potrebbero trovarsi in difficoltà con l’outsourcing: spesso, infatti, dopo le prime fasi l’infrastruttura aziendale diventa troppo grande ed intrecciata per affidare ad esterni lo svolgimento di determinate attività.

2) La startup è product-based o ad alto contenuto tecnologico?

La natura di una startup ha una rilevanza fondamentale per capire se e cosa esternalizzare: per una società di e-commerce, ad esempio, la tecnologia non è sicuramente un aspetto fondamentale. In questo caso, conviene esternalizzare la costruzione del sito web aziendale, riuscendo ad ottenere qualcosa di semplice e funzionale in maniera relativamente semplice e veloce.

Viceversa, una startup technology-based, nella quale è fondamentale la proprietà intellettuale, ha bisogno di assumere uno sviluppatore software in-house. Non è il caso, quindi, di affidarsi all’outsourcing, ma è preferibile sviluppare il codice da zero all’interno dell’azienda.

3) Che tipo di attività si vuole affidare in outsourcing?

Può essere molto difficile trovare delle persone in possesso di determinate tipologie di competenze da assumere. Pirate3D, ad esempio, ha avuto grosse difficoltà per il mechanical development, attività di importanza basilare per un’azienda che costruisce stampanti 3D.

In casi come questi l’outsourcing rappresenta una soluzione molto efficace per una startup agli inizi: con il tempo, dopo una certa crescita e dopo aver eventualmente raccolto i primi capitali, si può provare a portare le funzioni inizialmente esternalizzate in-house.

Un altro aspetto fondamentale di cui tener conto è la natura delle attività che si intende affidare in outsourcing: ad esempio, Goh afferma che è possibile esternalizzare le attività sensibili solo fin quando i fornitori non sanno come le parti da loro sviluppate si inseriscono nel processo complessivo.

In generale, il consiglio è che le attività che possono essere esternalizzate non devono essere critiche nè sensibili, il rischio deve essere sempre ridotto ai minimi termini.

4) Il fornitore prescelto è startup-oriented?

Si tratta di una discriminante fondamentale: Tinkerbox, ad esempio, è una società fortemente orientata alle startup e i suoi lavori di sviluppo software per startup rappresentano alcune delle best practices del settore.

L’atteggiamento di un fornitore startup-oriented è quello di insegnare ed educare le startup all’importanza della qualità e della produttività aziendale.

5) Nel tuo team vuoi dei generali o dei fanti?

Tutti i relatori della tavola rotonda sono stati d’accordo su un punto: i dipendenti sono solitamente disposti a lavorare di più rispetto ai fornitori.

Un fornitore in outsourcing ha sicuramente interesse a svolgere al meglio il compito che gli è stato affidato, a portare a termine il proprio lavoro nel migliore dei modi, ad aiutare la startup ad avere successo: ma c’è un confine che i fornitori non attraversano.

I dipendenti, invece, sono disposti ad andare oltre le semplici attività “di routine” per le quali sono stati assunti, perché fanno propria la vision e la mission della startup.

6) Può essere utile esternalizzare attività a società estere?

Anche se ci sono alcuni Paesi in cui determinate attività costano meno, coinvolgere persone troppo lontane ha dei costi nascosti molto ingenti. Spesso, un team costruito in questo modo è più lento e rallenta il progresso dell’intera startup.

7) Sai essere un buon cliente per i tuoi fornitori?

Un buon cliente è colui che sa esattamente ciò che vuole e sa spiegarlo al proprio fornitore: quando sceglie di ricorrere all’outsourcing, la startup deve avere un atteggiamento altamente collaborativo con i fornitori.

Inoltre, spesso una mancata corrispondenza tra i risultati finali e le aspettative del cliente dipendono da una cattiva comunicazione: bisogna saper spiegare fin dall’inizio cosa si vuole ed effettuare il più spesso possibile dei check-in per seguire i progressi del fornitore.

Nel caso in cui la startup abbia dei problemi a comunicare ogni giorno con l’agenzia fornitrice, è utile chiedere fin dall’inizio a quest’ultima di inviare dei report quotidiani.

8) Stai cercando di assumere qualcuno attraverso l’outsourcing?

Anche se può sembrare rischioso, in realtà la pratica di assumere qualcuno con delle particolari skills mentre sta lavorando per l’agenzia fornitrice è molto diffusa.

Tra i relatori, il founder di Tinkerbox spiega che il modello della sua agenzia è basato esattamente sull’attrarre persone di talento, per poi rilasciarli nuovamente sulla scena startup.

Inoltre, vedere come lavora una persona affidandogli delle attività in outsourcing per brevi periodi può essere un modo efficace ed economico per testare le sue capacità e competenze prima di assumerla.

9) Ti interessa la reputazione del tuo fornitore?

Le startup si affidano molto spesso alla reputazione dell’agenzia per prendere le proprie decisioni sull’outsourcing: si tratta di un approccio che può essere sicuramente valido. Tuttavia, Cheng mette in guardia sul fatto che le società si evolvono, e chi in passato ha lavorato male non è detto che continui a farlo.

In ogni caso, un approccio utile per testare l’efficacia dei fornitori è quello di “tenergli il guinzaglio corto”: significa affidargli dei piccoli compiti e, se svolti bene, affidargli mansioni più importanti. Si tratta di un approccio che consente di costruire la fiducia ed, eventualmente, affidare un progetto completo al fornitore.

Un altro approccio utile consiste nell’affidare un lavoro di breve durata a due o tre agenzie contemporaneamente, per stabilire i loro standard e poi scegliere il migliore.

10) Cosa pensano i vostri investitori del outsourcing?

I founders di una startup che ha raccolto capitali da investitori devono sicuramente tenere in considerazione la loro opinione quando si trovano a dover scegliere se ricorrere o meno all’outsourcing.

Paine, relatore della tavola rotonda ed investitore, ha una risposta piuttosto semplice per la questione: “Il vostro obiettivo è quello di fare quello che dovete. Che lo facciate da soli, o che paghiate qualcuno per farlo, non ha importanza”.

Inoltre, Paine spiega che spesso per le startup più mature è preferibile avere i propri team in-house, mentre le giovani startup dovrebbero affidarsi all’outsourcing almeno fino a quando non saranno pronte a gestire un team di dipendenti.

L’articolo originale è disponibile al link: http://www.techinasia.com/10-questions-outsourcing-work-startup/?utm_source=feedly&utm_reader=feedly&utm_medium=rss&utm_campaign=10-questions-outsourcing-work-startup

Napoli, 04/04/2014

Consigli alle startup: il passaggio fondamentale da founder a CEO

Uno degli ultimi articoli pubblicati da Entrepreuner porta la firma di Darrel Kopke, co-founder dell’acceleratore di impresa canadese InstituteB (caratterizzato da una vision che mette sullo stesso piano il profitto e il valore sociale del business). Tema dell’articolo è il passaggio fondamentale che il founder di una startup deve affrontare: quello che lo porta a diventare CEO della sua impresa.

Spesso infatti, quando una startup raggiunge una fase di stallo nella sua crescita o compie un passo falso, il founder dà la colpa agli altri quando, in realtà, alla base del problema potrebbe esserci proprio lui: Kopke fa l’esempio di una recente esperienza vissuta con una società di software che aveva avuto una crescita esponenziale delle vendite per i suoi primi 5 anni di attività, salvo poi assistere per 2 anni consecutivi ad una fase di stagnazione e infine di calo delle vendite.

In questa società il founder gestisce un team di 80 persone, è oberato di lavoro, ma cerca in tutti i modi di ritrovare lo slancio che aveva caratterizzato i primi anni di vita dell’azienda: ciò che appare evidente a Kopke è che il founder si occupa ancora di lavorare a troppe attività come quelle di marketing, o la correzione degli errori nel codice, e ancora la partecipazione a tutte le fiere e gli eventi di networking del settore. Nonostante abbia un team di senior leadership, interferisce nel loro lavoro e nelle loro scelte.

Dal punto di vista del founder, il motivo alla base della crisi che l’azienda attraversa è la combinazione di un team debole al marketing, un mercato del lavoro competitivo per gli sviluppatori e una serie di mosse intelligenti messe a segno dai concorrenti. In realtà, secondo Kopke, il problema è nel mancato passaggio da founder a CEO.

Kopke sostiene infatti che la crescita e la traction dei primi anni era il risultato dell’intelligenza, la passione, la vision e l’etica del founder e, allo stesso modo, costui dovrebbe assumersi la responsabilità anche della crisi attuale che il business sta attraversando.

Secondo l’autore, il passaggio dalla mentalità da founder a quella da CEO non è una progressione naturale: il founder, che ha costruito fin dagli inizi la propria startup seguendo e controllando tutti gli aspetti del business, ha difficoltà a delegare ad altri il controllo di alcune attività, temendo di perdere il controllo dell’azienda. Ma i founders che non delegano diventano essi stessi un ostacolo alla crescita del proprio business.

Vediamo, quindi, alcuni consigli che Kopke elenca nel suo articolo e che sono utili al passaggio dalla mentalità di founder a quella di CEO:

1) Stabilisci il valore del tuo tempo a 1.000$ a ora.

E’ fondamentale che un CEO dia il massimo valore al proprio tempo. Bisogna sempre domandarsi “Qual è il miglior utilizzo che posso fare del mio tempo in questo momento?”. Ad esempio, non è proficuo lavorare sulle attività che dovrebbe chiudere un copywriter, mentre è necessario impiegare il proprio tempo sulla creazione di entrate e profitti.

2) Non svolgere nessuna attività, ma gestirle tutte.

Occorre cambiare completamente la mentalità: il CEO deve lavorare sulla propria attività, non lavorare nel proprio settore. Un leader efficace è colui che riesce ad allineare il proprio team su risultati specifici e definiti, per poi gestire tali risultati una volta che sono stati raggiunti. Occorre gestire il chi, il cosa e il quando: non il come.

3) Diventare il “Chief Why Officer”.

Vuol dire costruire un contesto della propria leadership, ricordando sempre al team perchè la società sta facendo ciò che sta facendo, qual è il ruolo di ciascuno all’interno dell’azienda, compreso il ruolo del CEO. Si tratta di un passaggio fondamentale per costruire la vision aziendale, per farla comprendere al team: è il modo migliore affinché tutti comprendano i valori aziendali e lavorino secondo tali valori, basando su essi tutti i processi decisionali.

In conclusione, secondo Kopke, i founders che riescono a spostare la propria mentalità su quella da CEO non devono aver timore che la situazione sfugga loro di mano: al contrario, sono proprio i founders che riescono a fare questo passaggio quelli che non perdono contatto con il proprio business, garantendosi la possibilità di guidare la propria azienda verso un futuro prospero e di crescita.

Per leggere l’articolo originale su Entrepreuner: http://www.entrepreneur.com/article/231825

Napoli, 28/02/2014

5 situazioni difficili per una startup e 5 mondi per affrontarle al meglio

Dal sito internet Six Revision, un interessante post di Sabelline Chicot, content strategist dell’agenzia di Web Marketing Further, esperta di imprenditoria e tecnologie spiega quali sono le cinque situazioni che possono rallentare la crescita di una startup.

Dopo la primissima fase di attività di una startup, durante la quale tutto sembra procedere velocemente e per il meglio, e le possibilità di crescita sembrano illimitate, spesso capitano infatti dei momenti di difficoltà che, se affrontati nel modo giusto, possono essere brillantemente superati dal team. Vediamo quali sono questi problemi e come è possibile risolverli nella maniera più efficace.

1. Aspettare che tutto sia perfetto

A volte, la startup si ferma in attesa che tutto sia impeccabile, ma questo è un grande errore: bisogna invece partire da un semplice presupposto, cioè che la perfezione è un sogno irrealizzabile. Sabelline Chicot spiega che per avere successo nel business il team deve concentrarsi sulle cose che contano veramente, tralasciando dettagli poco significativi, mantenendo ben presente la vision e proseguendo verso il lancio del prodotto. L’importante per una startup è avere prima possibile un prodotto da mettere sul mercato, per poi migliorarlo nel tempo sulla base dei feedback dei clienti. Di conseguenza, il focus deve essere sulle funzionalità di base.
Questo discorso vale a maggior ragione per startup che operano nel settore software: Sabelline Chicot riporta a tale proposito le parole di Dave Winder, sviluppatore ed imprenditore di successo, secondo il quale lo sviluppo di un software è un processo sempre in evoluzione e “l’unico software perfetto è quello che stai ancora sognando”.

2. Cercare di essere al passo con i vostri concorrenti

Tenere il passo con le novità del settore e conoscere la concorrenza è sicuramente un punto fondamentale per qualsiasi imprenditore, ma Sabelline Chicot spiega chiaramente che non deve diventare un’ossessione: la continua analisi della concorrenza può diventare un “labirinto oscuro” da cui è difficile districarsi e prendere davvero molto tempo ad una startup.
Lo stesso Paul Graham ha sottolineato nel suo blog che difficilmente una startup fallisce a causa dei concorrenti: anzi, secondo Graham, spesso un mercato affollato di competitors non è una minaccia, ma un segnale di vitalità del mercato, e della presenza un bisogno da soddisfare.

Il consiglio di Sabelline Chicot è quello di impegnarsi sicuramente in un’analisi accurata della concorrenza e di tenersi aggiornati su ciò che accade nel proprio settore di riferimento, senza tuttavia lasciarsi scoraggiare o modificando troppo la propria vision.

3. Fare tutto da soli

I founder di una startup, secondo Sabelline Chicot, non devono sentirsi in dovere di svolgere da soli tutte le mansioni: marketing, informatica, risorse umane, finanza, vendite, sviluppo web… E’ sicuramente più utile incanalare le proprie energie in alcuni compiti specifici e strategicamente cruciali e imparare a delegare gli altri compiti e mansioni agli altri.

In una startup è importantissimo imparare a dividere i compiti ed è fondamentale che i founder responsabilizzino gli altri membri dell’organico: il consiglio pratico è quello di fornire ai lavoratori i migliori strumenti possibili, lasciandoli poi svolgere liberamente il proprio lavoro.

4. Prendersi troppo sul serio

Sabelline Chicot sceglie come esempio sull’argomento l’imprenditore seriale Richard Branson: secondo l’autrice del post, Branson è l’espressione massima di un founder di startup caratterizzato dal buon umore e dalla capacità di non prendere le cose troppo sul serio. Dietro questa apparenza sorridente, tuttavia, Branson cela una solidissima logica aziendale.

In sintesi, soprattutto nelle fasi di startup in cui necessariamente ci si ritrova di fronte a molte decisioni critiche, è importante imparare ad essere positivi e riuscire a trasmettere tale positività nella cultura aziendale, così da permettere a tutti di lavorare in un contesto di apertura in cui sia più facile essere creativi.

5. Paura di sbagliare

In quest’ultima parte del suo post, Sabelline Chicot spiega l’importanza degli errori per una startup: è fondamentale avere bene in mente che non c’è nulla di male a fare qualcosa di sbagliato, che gli errori capiteranno sempre e che accettare questi concetti è segno di maturità e consapevolezza da parte dei founder.

Nessuno ha mai avuto un’idea perfetta, che non aveva bisogno di ulteriore lavoro e di modifiche: per dirla con le parole di Sabelline Chicot, “L’arte di riuscire nelle cose è anche nel fare degli errori”: sono moltissimi gli imprenditori che, prima di raggiungere il successo, sono passati attraverso il fallimento.

Fondamentale da questo punto di vista avere sempre un piano di riserva se le cose vanno male, per poter affrontare i momenti difficili con maggiore tranquillità ed obiettività e far crescere al meglio una giovane azienda.

E’ possibile leggere l’articolo originale di Sabelline Chicot su Six Revision al seguente link: http://sixrevisions.com/business/startups-growth-thing-slow-down/

Napoli, 06/12/2013

Consigli alle startup: Quali sono le skills che un imprenditore di successo deve possedere?

Sujan Patel è founder e CEO di Single Grain, una delle più importanti agenzie di Digital Marketing con sede a San Francisco: con un post recentemente apparso sul sito Business2Community prova a delineare l’identikit del perfetto imprenditore, attraverso le skills che caratterizzano alcuni tra i migliori imprenditori della storia.

Secondo Patel, non esiste probabilmente un lavoro al mondo che richieda maggiori skills di quello dell’imprenditore: bisogna occuparsi di ogni aspetto dell’azienda, essere sì un visionario (come pensava Steve Jobs) ma anche un team leader, un project manager, un assistente amministrativo, un venditore e molto altro ancora.

Quali sono, quindi, le skills indispensabili per essere un buon imprenditore?

1. Never Be Satisfied

I migliori imprenditori non si accontentano mai dei risultati raggiunti: cercheranno sempre di migliorare e di innovare sè stessi e il proprio business. Mentre il resto del mondo pensa che i risultati raggiunti lo rendano un uomo di successo, l’imprenditore sta già pensando ai prossimi progetti da realizzare, che saranno più innovativi e sicuramente migliori di quelli già realizzati.

Esempio scelto da Patel per spiegare questa skill è Milton Hershey, fondatore della Hershey’s, la più grande azienda statunitense nella produzione del cioccolato. Fondata oltre un secolo fa, oggi vende i suoi prodotti sul mercato globale: ma non è da qui che è partito il suo fondatore. Nel 1900, infatti, Hershey ha venduto la sua prima azienda, The Lancaster Caramel Company, nonostante avesse un grosso successo. Secondo Patel, gli startuppers ed imprenditori dei giorni nostri dovrebbero imparare dal suo esempio proprio il fatto di non essere mai appagato dai risultati raggiunti, allo scopo di far raggiungere il top alla propria azienda.

2. Be Ambitious

Gli imprenditori non cambiano il mondo con piccole azioni: lo fanno attraverso progetti ambiziosi, che cambiano radicalmente lo status quo del mercato. Ecco perchè Patel definisce il “santo Graal” dell’imprenditore il prodotto/servizio definibile come “disruptive”, quello che cambia la visione del mondo delle persone.

Per spiegare questa skill, l’autore sceglie l’esempio di Mark Zuckerberg, fondatore di Facebook. Patel spiega che, con grossa probabilità, Zuckerberg non ha iniziato con il proposito di cambiare del tutto il mondo delle interazioni sociali trasportandole su internet. Ciò non toglie che, una volta intravisto il potenziale del suo progetto, l’ideatore di Facebook è stato ambizioso fino a trasformare il suo piccolo social network in un colosso che conta oggi milioni di iscritti.

3. Be Fearless

La paura non è d’aiuto a chi vuole iniziare il proprio business e portarlo al successo: certo, Patel ammette che a volte guidare un’azienda (soprattutto in fase di startup) può intimorire, ma bisogna assolutamente superare ogni timore per poter anticipare e cogliere le occasioni che porteranno un’azienda al successo.

E’ Sara Blakely, founder di Spanx (azienda di successo globale che ha rivoluzionato il mercato dell’intimo femminile), la scelta di Patel per dare un esempio reale ai lettori: quando la prima volta le è venuta in mente l’idea del suo prodotto principale, Sara non sapeva nulla di manifattura tessile, di processi produttivi e ancor meno di retail. Ma non ha lasciato che la paura la fermasse ed oggi è la più ricca e giovane imprenditrice nella storia.
Patel consiglia, quando si ha paura di qualcosa, di trovare un modo per superarla: la paura, infatti, può seriamente impedire al business di decollare, se non viene gestita correttamente.

4. Take Risks

Non è certamente una novità affermare che un imprenditore deve assumersi dei rischi: ma il punto che Patel vuole affermare, è che i migliori imprenditori non si assumono rischi a caso. Essi analizzano le situazioni e si assumono rischi dopo averli ben calcolati e considerati, senza esporre il proprio business a rischi inutili ma scegliendo solo le situazioni che possono portarli al successo.

E’ ciò che ha fatto Mark Pincus, founder di Zynga, famosa social gaming company milionaria: prima di fondare Zynga, Pincus si è assunto il rischio di rifiutare un finanziamento garantito per la sua prima azienda, Freeloader. Pincus ha preso questa decisione rischiosa perchè, acconsentendo, avrebbe dovuto assumere un CEO scelto dall’investitore. Il founder ha preferito assumersi il rischio di rifiutare il finanziamento, mandando a monte l’affare.

Alla fine, la scelta di Pincus si è rivelata vincente: è riuscito ad ottenere un finanziamento da un’altra fonte per Freeloader e in seguito a vendere la società per finanziare la startup Zynga.

5. Follow Your Intuition

Sicuramente chi ha una sorta di “sesto senso” innato è facilitato, ma ciò non toglie che gli imprenditori di maggior successo sono quelli che sanno seguire il proprio istinto, facendosi guidare nelle decisioni di business.

L’esempio più importante in questo caso è sicuramente Steve Jobs, una figura affascinante, che ha realizzato prodotti di successo ottenendo dei numeri impressionanti in termini di vendite. Secondo Patel è indubbio che il successo di Jobs dipenda in larga parte dalla sua capacità di affidarsi all’istinto, da cui dipende anche la sua famosa capacità di sviluppare prodotti che i clienti non avevano ancora realizzato di voler acquistare.

E’ il caso dell’iPad: prima del suo lancio sul mercato, il settore dei tablet si trovava in un momento di stagnazione. Ciò nonostante, Jobs ha lavorato duramente al suo prodotto, scatenando la curiosità dei clienti che inizialmente non erano interessati.
Lo stesso Jobs ha riconosciuto il ruolo fondamentale che le capacità intuitive hanno rivestito nel suo successo imprenditoriale: in un’intervista al New York Times, attribuiva lo sviluppo del suo intuito ad un viaggio in India quando aveva 19 anni.

“The people in the Indian countryside don’t use their intellect like we do, they use their intuition instead … Intuition is a very powerful thing, more powerful than intellect, in my opinion. That’s had a big impact on my work.”

6. Know Your Vision

Ultima skill fondamentale per l’imprenditore di successo è quella che permette, secondo Patel, di avere una propria visione del mondo e la voglia di trasformare la realtà secondo questa visione. Non accettano le cose così come sono, e lavorano per cambiarle.

Uno dei più grandi esempi di vision imprenditoriale è, secondo l’autore del post, Bill Gates: l’uomo che, assieme al suo socio Paul Allen, ha rivoluzionato il mondo dei computer lanciando il personal computer e il suo software.

Sarebbe stato impossibile fare una cosa del genere, senza una visione diversa e rivoluzionaria del computer rispetto a come era allora concepito: probabilmente, conclude Patel, non tutti gli aspiranti imprenditori e startuppers hanno una vision rivoluzionaria come la sua, ma ciò non significa che non debba essere una vision importante per sè stessi e per il proprio business.

Bisogna imparare a vedere ciò che ancora non c’è: si tratta probabilmente della più importante tra le skills che un imprenditore deve possedere per arrivare al successo.

Napoli, 21/11/2013

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