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Startup Tips – Believers: il successo dipende dalle persone che credono nell’idea

Joseph Walla è CEO e co-founder della startup statunitense HelloSign, lanciata nel 2012 a San Francisco, che conta ad oggi oltre un milione di utenti: HelloSign consente di ottenere firme elettroniche legalmente valide, che eliminano i problemi di stampa, scansione, fax di documenti, offrendo un servizio utile anche e soprattutto alle aziende che ottengono un impatto sulle entrate e sulla customer experience.

Prima di lanciare HelloSign, Walla racconta di averla mostrata ad alcuni familiari: alcuni di loro erano colpiti favorevolmente, altri perdevano attenzione dopo un primo sguardo interessato, altri ancora non hanno mostrato alcun tipo di interesse ed entusiasmo. L’unico a credere, ad avere davvero fiducia nelle potenzialità di HelloSign era proprio Walla.

La fiducia è fondamentale per le grandi aziende: in un post pubblicato su LinkedIn, Joseph Walla scrive che i “believers”, coloro che credono nel business, sono indispensabili per il successo di un’azienda. Dropbox ne ha 100 milioni, Google addirittura un miliardo.

Quando una startup è agli inizi del suo sviluppo, ha un unico believer: il fondatore. Ecco perché, afferma Walla, il primo lavoro di un founder è creare i believersPer creare una community di persone che credono nella startup è necessario credere nel proprio prodotto, avere fiducia nelle sue potenzialità: questo è il primo passo per convicere altre persone a diventare believers. Una startup, per crescere, ha bisogno di differenti tipologie di believers. Vediamo quali sono quelli che Joseph Walla elenca nel suo post.

1) You have to believe

Come accennato, il founder deve essere il primo a credere nella startup. La domanda fondamentale da porsi, quando si ha un’idea di business, è “Voglio davvero lavorare a questa cosa?”. Bisogna capire se si tratta di un’idea per cui valga la pena investire tempo, impegno, risorse.

Un esempio di founders che hanno creduto nella propria idea fino a portarla al successo è Airbnb: hanno investito tutti i risparmi, hanno venduto cereali per restare a galla. Hanno atteso 999 giorni senza vedere un minimo di traction: ma non hanno mai smesso di credere nella propria idea, fino a raggiungere il successo a livello globale.

2) You need customers that believe.

I clienti sono coloro che investono risorse preziose, in termini di tempo e denaro, nel prodotto di una startup: è fondamentale, per invogliarli a farlo, che essi credano nel valore che il prodotto può portare nelle proprie vite.

Un esempio illustre citato da Walla è quello di Evernote, che si è trovato sulla soglia del fallimento: i suoi clienti ci credevano così tanto da investire nell’azienda e salvarla dalla bancarotta.

3) The press has to believe.

Cosa distingue le startup che ottengono spazi sulla stampa da quelle che non ne ottengono? Secondo Walla la risposta è molto semplice: la stampa crede più nelle prime che nelle seconde.

La stampa, ad esempio, ha sempre amato molto Twitter: ci hanno creduto prima della maggior parte delle persone che sono poi diventate suoi utenti. La stampa ci ha creduto, e ha convinto anche altre persone a crederci.

4) Investors have to believe.

Per far sì che gli investitori credano nella startup, bisogna dimostrare che riusciranno a compensare il finanziamento con un ritorno elevato. Bisogna che gli investitori credano nella startup, devono convincersi che abbia il potenziale per diventare un’azienda miliardaria.

Ad esempio, Dropbox ha faticato parecchio a trovare degli investitori, ma è riuscita comunque a raggiungere il successo grazie ad alcuni finanziatori che credevano davvero nel prodotto.

5) The team has to believe.

Il team deve credere davvero nel progetto per lavorare al massimo: in particolare, i migliori sviluppatori, venditori, marketers sono coloro che scelgono di investire il proprio talento in qualcosa per cui valga davvero la pena.

Pandora, ad esempio, ha rischiato la bancarotta nel 2001. Aveva un team di oltre 50 persone che hanno investito nella società oltre 1,5 milioni di dollari, che hanno rinunciato al proprio stipendio per 2 anni: lo hanno fatto perché credevano nell’azienda.

6) Your partners have to believe.

Le giuste partnership sono fondamentali per un business development che faccia crescere l’azienda su larga scala. Per ottenere questi risultati è necessario dimostrare ai potenziali partner di essere in grado di aggiungere valore per i loro utenti: nessuno è disposto ad inviare migliaia o milioni di clienti ad una startup in cui non crede.

Bill Gates, ad esempio, ha concesso i suoi software in licenza a IBM, costruendo un partenariato di successo: IBM, infatti, ha creduto che Microsoft avrebbe apportato valore aggiunto per i suoi clienti.

In conclusione, afferma Walla, tutto ciò ci riporta all’inizio della storia, quando il founder è l’unico believer della startup: il primo lavoro da svolgere è quello di creare nuovi believers, perché la startup ha bisogno di clienti, dell’appoggio della stampa, di investitori, di un team e di partner che credano davvero nelle sue potenzialità.

 

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L’articolo originale è disponibile qui: https://www.linkedin.com/pulse/your-job-founder-create-believers-joseph-walla

Napoli, 28/08/2015

Startup e Creatività: una caratteristica imprescindibile per imprenditori di successo

Susan Jones è esperta in imprenditorialità innovativa, ed in particolare nelle attività di Strategic Thinking: il suo blog, Ready Set Startup, contiene molti spunti interessanti e consigli utili per aspiranti startupper e imprenditori alle prese con l’avvio del proprio business. Uno dei suoi post più interessanti è quello intitolato “Why creativity is essential to your survival as an entrepreneur”: in questo articolo, l’autrice cerca di spiegare i motivi per cui la creatività rappresenta una skill fondamentale per chi decide di trasformare un’idea in una startup.

Il punto di partenza dell’intero post è rappresentato da un tweet che Susan Jones ha ricevuto di recente: secondo l’autore del tweet, l’idea rappresenta soltanto una minima percentuale del successo di una startup. Ciò che conta davvero, a suo parere, è trovare un grande co-founder e costruire un team in grado di portare il business al successo.
Susan Jones concorda sull’importanza centrale del team per il successo di una startup, ma aggiunge un altro elemento: un grande team è composto da persone con esperienza in determinati settori, ma queste persone devono essere animate da grande creatività per poter applicare le proprie competenze in modalità innovative. Il team giusto per una startup è quello in grado di lavorare con gli elementi già esistenti per creare nuove soluzioni ai problemi di business, un po’ come un compositore lavora con le note musicali per creare una nuova canzone.

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Secondo Susan Jones, ci sono almeno quattro motivi fondamentali per cui la creatività è una caratteristica indispensabile per il successo di una startup:

1) Se si vuole costruire una grande azienda, è necessario applicare ad essa la creatività

La creatività rappresenta uno dei fattori che distinguono una piccola impresa da una startup: l’autrice si serve di un esempio incentrato sul settore del graphic design. Un graphic designer che inizia a pubblicizzare il lavoro ed i servizi offerti ai propri clienti è una piccola impresa, anche se è brillante e riesce ad impiegare nel proprio team altri grafici brillanti. Ma quando si applica la creatività al campo del graphic design, ciò che si ottiene è una startup di successo internazionale come 99designs.

2) Uno startupper è colui che riesce a risolvere i problemi sviluppando soluzioni nuove, cui nessuno ha mai pensato prima

Prendiamo il caso in cui ci si trova in una città nuova dove non si conosce nessuno. Come fare a trovare persone simpatiche? O nel caso di uno startupper, come incontrare potenziali co-founder e investitori?

Oggi, la soluzione è ovvia: si utilizza Meetup. Ma fino al 2002, la soluzione non era così semplice ed evidente, e c’è voluta molta creatività e molto lavoro per svilupparla. Il risultato, però, è una startup di successo globale.

3) La creatività è un valido aiuto anche nei momenti più difficili dell’esperienza da startupper

Prendiamo i momenti più difficili di una startup agli inizi: cosa fare quando il nostro prodotto non vende? Come creare una nuova campagna di marketing? Come affrontare un pivot? Cosa fare quando si è a corto di denaro cash?
Per uscire da tutte queste situazioni è indispensabile essere creativi: non esistono soluzioni “preconfezionate”, bisogna trovare quella più adatta al nostro business.

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4) Più si riesce a sviluppare la propria creatività, più aumenta il vantaggio competitivo della startup

Tutti gli imprenditori sono potenzialmente delle persone creative, ma ciò che li contraddistingue è la capacità di trovare soluzioni pratiche innovative e di riuscire ad attuarle. Quanto più si riescono ad affinare queste competenze, più possibilità ci sono di riuscire ad avere idee di business di successo e, soprattutto, di riuscire a realizzarle.

Il consiglio finale di Susan Jones? Trovare il modo di allenare la propria creatività, ogni giorno.

Il post originale di Susan Jones è disponibile qui: http://www.readysetstartup.com/business-creativity/

Napoli, 24/07/2015

Consigli per startup e imprese – Digital Marketing e creazione di contenuti: uno strumento per aumentare le vendite

L’attività di Digital Marketing rappresenta uno degli strumenti più importanti ed efficaci di cui una startup (e, in generale, un’azienda) può avvalersi per raggiungere i propri obiettivi di business e, in particolare, di vendite. Nello specifico, un’attività coerente e costante di marketing digitale, basata sulla creazione di contenuti mirati su social media, può contribuire in larga misura al successo di una startup.

Il tema del Digital Marketing è affrontato in un interessante post di James Kelliher, CEO di Whiteoaks, pubblicato di recente nella sezione “Lead Generation” del Digital Marketing Magazine: come anticipato dal titolo, lo scopo del post di Kelliher è quello di dimostrare in che modo l’utilizzo corretto del Digital Content può cambiare le dinamiche del business aziendale.

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Prima di tutto, l’autore afferma che la maggior parte delle aziende che decidono di concentrarsi sulle politiche e le linee guida riguardo il coinvolgimento e la gestione della community devono prendere coscienza che una buona campagna di social media rappresenta lo strumento in grado di creare il massimo valore in termini di lead generation: per questo motivo, la campagna social deve essere l’obiettivo primario.

Il primo step da affrontare nella pianificazione ed implementazione di una campagna di Digital Marketing è quello di identificare i target e le priorità su cui concentrare la comunicazione: questo passaggio è oggi facilitato dagli strumenti offerti dai social media, che consentono di costruire un vero e proprio database delle persone cui rivolgersi.

Una volta identificate le persone cui rivolgersi, bisogna convincerle ad avvicinarsi alla nostra azienda fino a concludere la transazione con l’acquisto del nostro prodotto: è in questa fase che il Digital Content diventa di centrale importanza. Da questo momento in poi, il contenuto offerto rappresenta il veicolo che permette di raggiungere il potenziale cliente e, in prospettiva, di convincerlo a procedere all’acquisto.

Per questo motivo, occorre fare molta attenzione al mix di contenuti offerti: bisognerebbe pubblicare informazioni specifiche riguardanti l’azienda, e altri contenuti open-source su argomenti rilevanti del settore, costruiti in modo tale da comunicare un messaggio di innovazione e sviluppo nel settore.
I contenuti così creati vanno poi veicolati attraverso i social: in particolare, Kelliher sostiene che nelle comunicazioni b2b l’ideale è servirsi di Twitter e LinkedIn.

Un altro aspetto fondamentale da tenere in considerazione è che l’engagement è un processo “a doppio senso”: la comunicazione funziona se, oltre a diffondere messaggi e contenuti, l’azienda riesce ad incoraggiare le persone ad avviare un dialogo. Una volta che c’è l’engagement, è possibile raccogliere dati ed informazioni utili su utenti e potenziali clienti. Un suggerimento utile offerto dall’autore riguardo alla raccolta di dati e informazioni è quello di assicurarsi che i messaggi specifici cui avranno accesso gli utenti che si collegano al sito aziendale siano in parte aperti e in parte chiusi. I contenuti di alto valore dovrebbero infatti essere chiusi, e i visitatori del sito dovrebbero lasciare dati ed informazioni per accedere ad essi.

Ancora, l’engagement degli utenti può essere monitorato attraverso le attività sui social media: ad esempio, è possibile identificare un orizzonte temporale (1, 2 o 3 mesi) e capire se durante questo periodo di tempo gli utenti avranno delle interazioni social con i profili dell’azienda (un retweet, un like, una condivisione, un commento, etc). Tenere sotto controllo questa tipologia di attività rappresenta un modo per monitorare la qualità delle relazioni che si sono instaurate tra l’azienda e il cliente.
Inoltre, esaminare la tipologia di contenuto che cattura l’interesse è un’ulteriore opportunità per raccogliere informazioni e capire quale tipologia di prodotto il cliente potrebbe acquistare.

Office Desk with Tools and Notes About Digital Marketing

Il passo finale, naturalmente, è quello di trasformare l’engagement in vendite effettive: in questo, i canali di vendita tradizionali sono insostituibili (telefono, faccia a faccia, attraverso l’intermediazione di terzi).
Tuttavia, la quantità di dati ed informazioni raccolte attraverso una campagna di Digital Marketing coerente, continuativa e basata sui contenuti rappresenta un passo avanti quando ci si trova a dover concludere la vendita finale.

In conclusione, Kelliher pone l’attenzione su un aspetto caratterizzante di questa tipologia di approccio: visto da questa prospettiva, il marketing diventa un processo in cui il potenziale cliente non è più un semplice “bersaglio passivo”, ma assume un ruolo importante in cui si sente coinvolto fin dalle prime fasi di attività del business.

Il post originale è disponibile qui: http://digitalmarketingmagazine.co.uk/digital-marketing-lead-generation/effective-use-of-digital-content-will-change-the-dynamics-of-your-business

Napoli, 09/07/2015

Consigli per startup e imprese: umanizzare il brand grazie alla comunicazione social

Michelle Manafy è direttore di Digital Content Next, associazione di categoria che si occupa delle esigenze delle imprese in materia di digital media. Nel suo ultimo articolo pubblicato da INC., parla di come i social media rappresentino un aspetto fondamentale per i brand di startup e imprese.

In particolare, il suo articolo analizza un aspetto tanto importante quanto difficile da gestire: quando si tratta di social media, i brand devono essere “umanizzati”. Comportarsi “come dei robot” è infatti, secondo Michelle Manafy, l’errore più fatale che un’azienda possa commettere quando si affronta la comunicazione sui social media.

Nel suo articolo, l’autrice espone ai lettori tre strategie efficaci per aziende e startup alle prese con la comunicazione sui social: vediamo di quali strategie si tratta.

1) Le persone alimentano il business

Le persone che lavorano in un’azienda sono una grande forza per il brand: il primo suggerimento è quello di prendere in considerazione l’idea di mettere una foto che ritragga il team sulle home page degli account social. Guardare in faccia le persone che compongono un’azienda è importante per i clienti, che possono in questo modo avere uno strumento in più da cui capire la cultura che c’è dietro al brand.
Un’altra buona idea è quella di coinvolgere il personale e il team nella creazione di contenuti su Twitter: la conseguenza sarà quella di infondere alla presenza social del brand una vera e propria “forza umanizzante” che coinvolge in maniera efficace la community.

Social media communication concept

2) La conversazione è a due vie

Uno dei più grandi errori che un’azienda può fare quando si tratta di social media è quello di utilizzare i propri profili come un mezzo di comunicazione a senso unico. Il minimo che si possa fare, è utilizzare i social come un mezzo per rispondere a richieste e reclami dei clienti.
Anche in questo caso, bisogna ricordare sempre che lo scopo è quello di umanizzare il brand: per questo motivo, è importante parlare con i clienti affrontando problemi e richieste con grazia e gentilezza.

Oltre ad utilizzare i social media come canale per il servizio clienti, è possibile aumentare l’efficacia della comunicazione social del brand cercando di coinvolgere la clientela nella creazione di contenuti: un metodo molto utile e diffuso è, ad esempio, quello di incoraggiarli a postare fotografie tramite Twitter o Facebook, che ritraggano il cliente mentre utilizza il prodotto.
Da questo punto di vista, è importante dare sempre un riscontro o una risposta (ad esempio attraverso un retweet).

3) Le persone hanno la propria personalità

A questo punto, l’autrice si sofferma sul logo aziendale: questo è di solito la prima cosa che un cliente vede sulle pagine social dell’azienda. Ma questo logo ha personalità? La risposta può essere sì, ma secondo Michelle Manafy anche il logo migliore non può mai ricalcare e comunicare la pluralità di aspetti della personalità umana.
Ecco perchè bisogna affiancare al logo un linguaggio che riesca a comunicare delle emozioni, in particolare la gioia e l’umorismo: sono proprio queste ultime, infatti, le emozioni che riscuotono maggior successo sui social media.

Infine, l’autrice ricorda due aspetti da tenere sempre in mente quando si parla di comunicazione social del brand: la prima regola generale è quella di interagire utilizzando i nomi e parlando in prima persona, per trasmettere un maggior senso di umanità e genuinità.
La seconda, è quella di applicare i tre consigli strategici esposti anche alla creazione di contenuti.

Per leggere il post originale: http://www.inc.com/michelle-manafy/humanizing-your-brand-for-social-success-the-content-connection.html

Napoli, 30/06/2015

Consigli per startup: gli “Aha Moments”, cambiamenti di approccio fondamentali per affrontare la fase di commercializzazione

Ryan Gum è uno startup marketer originario di Sidney, che attualmente vive e lavora a Stoccolma: esperto di growth e online marketing per startup, ha un sito in cui raccoglie consigli e spunti utili per aspiranti imprenditori (http://ryangum.com/).
L’ultimo post pubblicato da Ryan Gum raccoglie otto situazioni che l’autore definisce “Aha Moments”: si tratta di otto cambiamenti di paradigma, ossia cambiamenti nell’approccio o nelle convinzioni, che egli ritiene fondamentali per uno startupper prima di arrivare alla fase di commercializzazione del prodotto.

Nel suo articolo, elenca gli otto momenti individuando per ciascuno di essi l’assunto di partenza, quello su cui normalmente ci si concentra, e di seguito il cambiamento utile, che identifica ciò su cui invece occorre concentrarsi quando la startup si prepara a introdurre sul mercato il proprio prodotto.

1) Ho bisogno di un MVP > Ho bisogno di un MDP

Il MVP (Minimum Viable Product) è un concetto basilare nella metodologia Lean Startup di Eric Reis: si tratta di una prima versione del prodotto, in possesso delle caratteristiche appena sufficienti per risolvere un problema/soddisfare un bisogno di base che permette al team di ricevere i primi feedback dai clienti. In sintesi, serve alla startup ad avere un prodotto caratterizzato dal minimo indispensabile per capire se esiste un possibile business.

Secondo l’autore, per passare alla fase di commercializzazione vera e propria il MVP deve però cedere il passo a quello che Andrew Chen (imprenditore seriale ed esperto di startup) definisce MDP (Minimum Desirable Product), ossia un prodotto centrato sulla prospettiva del cliente che crea un valore tale da soddisfare il suo bisogno e convincerlo a tornare (indipendentemente dalla redditività di tale prodotto per l’azienda).

Il MDP va quindi oltre il MVP: si tratta di un leggero cambio di prospettiva che, però, fa la differenza. L’autore, inoltre, suggerisce di costruire il MDP “pubblicamente”, ossia coinvolgere il più possibile i potenziali, futuri clienti nella fase di creazione del prodotto, ad esempio curando la comunicazione sui social. In questo modo si otterranno preziosi feedback per eventuali iterazioni e miglioramenti.
2) I miei primi 100 clienti arriveranno dal processo di scaling up > I miei primi 100 clienti arriveranno da un “combattimento corpo-a-corpo” 

“Combattimento corpo-a-corpo” è l’espressione scelta da Gum per spiegare la necessità di spendere tempo in contatto diretto con i clienti (di persona, al telefono, via e-mail) per capire esattamente come il prodotto/servizio della startup deve risolvere il problema o soddisfare i bisogni delle persone.

Questi contatti diretti devono essere portati avanti dalla startup prima di pensare ad un eventuale processo di scala: anzi, per arrivare al punto in cui è possibile scalare, occorre prima di tutto entrare in contatto con i clienti per assicurarsi che l’offerta della startup sia effettivamente adatta alle esigenze dei clienti.

Si tratta di un processo che richiede tempi lunghi e un lavoro mirato, ma, come afferma l’autore, tutte le aziende di successo hanno iniziato così: con un cliente alla volta.
Una volta contattati e soddisfatti i primi 100 clienti e possibile pensare a scalare.

3) Occorre concentrarsi sul marketing già dal primo giorno > Occorre concentrarsi sul marketing una volta individuato il Product/Market Fit

Trovare il Product/Market Fit, come affermato anche da Marc Andreesen (imprenditore di successo nel web, co-founder di Netscape e Ning), significa trovare il punto in cui si può essere sicuri di avere un buon mercato ed un prodotto/servizio per servirlo adeguatamente.

E’ solo da questo momento in poi che il prodotto inizia a “tirare” il mercato ed è quindi il momento a partire dal quale valga la pena investire in marketing: non avrebbe senso, afferma Gum, spingere un prodotto/servizio in assenza di un mercato adatto sul quale lanciarlo.

Prima di aver individuato il Product/Market Fit, infatti, le risorse investite in marketing non hanno prodotto da spingere, nè clienti da attrarre: è molto meglio investire in Customer Development, incontrando i clienti ed individuando il target di mercato per capire come definire un’adeguata value proposition.

4) Il successo deriva da una serie di vittorie > Il successo deriva dalla scoperta di ciò che non funziona, dopo una serie di tentativi falliti

L’idea generalmente valida secondo la quale il successo deriva dalla perseveranza è ancora più veritiera quando si parla di marketing: i migliori marketers, infatti, sono quelli che sanno essere umili.

Gum spiega, infatti, che 8 volte su 10 gli esperimenti e i tentativi di un marketer falliscono: ciò significa che bisogna continuare a provare, spingersi oltre, attraversare il fallimento per arrivare al successo.

Parafrasando Steve Jobs, l’autore del post afferma: Stay hungry, stay foolish, stay humble (umile).

5) Chi compone il mio target di mercato > Chi NON compone il mio target di mercato

Il consiglio è ben preciso: bisogna assicurarsi di capire bene chi NON è mio cliente e impegnare le proprie risorse per evitare di attrarlo.

Sicuramente è di importanza fondamentale, all’inizio di una startup, individuare il target di riferimento capendo qual è il cliente ideale. Ma altrettanto importante, una volta individuato il nostro target, è capire chi invece non è parte del target di riferimento.

Questo procedimento è infatti indispensabile per comunicare in maniera efficace: se si tenta di parlare a tutti, il messaggio non arriva a nessuno.

Avere come obbiettivo un target troppo ampio rende inefficace la comunicazione: ad esempio, è impensabile raggiungere con lo stesso messaggio tutte le donne di età compresa tra i 25 e i 60 anni. Se si tenta di parlare con tutte le componenti di questa fascia attraverso un unico messaggio, non sarà possibile comunicare efficacemente con tutte.

Per evitare spreco di risorse e impostare una campagna di comunicazione efficace, quindi, è fondamentale porsi, in fase di commercializzazione, la domanda: chi NON compone il mio target?
Inoltre, attrarre clienti che non sono parte del proprio target di riferimento può arrivare a danneggiare l’immagine dell’azienda, perchè non sarà facile soddisfare le richieste di coloro ai quali non è propriamente diretto il prodotto/servizio.

6) Il prodotto deve essere rivoluzionario > Prendi in prestito più possibile

Raggiungere il successo con una startup è già piuttosto difficoltoso: il consiglio dell’autore è quindi di non rendere tutto ancora più difficile pretendendo di partire da zero.

Un’innovazione deve essere disruptive, ma non necessariamente rivoluzionaria: sono molti i casi di successo di startup che hanno apportato delle modifiche e dei miglioramenti a prodotti/servizi già esistenti (Gum fa l’esempio di Uber).

L’innovazione deve essere incrementale, basata sull’iterazione e il continuo miglioramento: è molto più produttivo raccogliere ispirazione da fonti differenti e, in seguito, mettere insieme i vari aspetti di ciò che funziona per creare qualcosa di completamente nuovo.

Si tratta di ciò che Brian Harris definisce la “Formula Picasso”: trova tutti gli elementi che hanno avuto successo in altri casi, raccogli le parti migliori e applicali alle tue esigenze.

7) Ho bisogno di: strategia social, contenuti, pubblicità, PR, SEO, partnership, e-mail marketing, etc… > Scopri cosa funziona davvero e focalizzati su quello, scartando il resto

Oggi i canali di comunicazione sono così numerosi che si rischia di restare schiacciati, se si cerca di diversificare troppo profondamente la comunicazione: dall’e-mail marketing, a Facebook, a Twitter, a tutti i canali di comunicazione on-line è difficile riuscire ad essere presenti in maniera efficace su tutte le possibili piattaforme.

Una startup dovrebbe evitare di strafare: il consiglio dell’autore è infatti quello di individuare da dove provengono i segnali più forti, e di concentrare gli sforzi su quegli specifici canali (ne bastano uno o due per una startup alle prese con la fase di commercializzazione).

Una volta che i risultati iniziano ad arrivare, sarà poi possibile aumentare i canali di comunicazione spostando le risorse altrove.

8) Dobbiamo acquistare questo nuovo, incredibile STRUMENTO > Dobbiamo individuare e implementare un SISTEMA: gli strumenti consentono solo di eseguire ed automatizzare ciò che c’è già

Il team di una startup, di fronte ad un nuovo strumento (ad esempio un software gestionale), immaginano di trovare la soluzione a tutti i problemi: la tentazione di acquistarlo è forte. Ma Gum sostiene che questa scelta potrebbe rivelarsi un inutile spreco di risorse.

Gli strumenti sicuramente migliorano la vita e facilitano il lavoro, ma solo quando è già stato implementato un sistema di base: non ha senso acquistare, ad esempio, uno strumento per automatizzare il processo di marketing o di monitoraggio, se non c’è ancora un sistema/processo da automatizzare.

Il concetto è simile a quello secondo il quale i founders di una startup non dovrebbero assumere qualcuno per svolgere una certa mansione, prima che la mansione sia effettivamente reale all’interno dell’azienda.

In chiusura, Ryan Gum offre ai lettori un ultimo cambiamento di paradigma che è, a suo parere, il punto di partenza per chiunque voglia fondare una startup: bisogna passare da “Non è il momento giusto per iniziare” a “Non ci sarà mai un momento giusto: bisogna iniziare lo stesso”.

L’articolo originale da cui è tratto questo post è disponibile qui: http://ryangum.com/8-aha-moments-needed-before-marketing-your-startup/?utm_content=buffer51aa9&utm_medium=social&utm_source=twitter.com&utm_campaign=buffer

Napoli, 18/06/2014

Come gestire la customer influence: la strategia social basata sul “4 Gears Model” di Geoffry Moore

Con lo sviluppo e la diffusione globale delle tecnologie digitali, il ruolo ed il comportamento dei clienti è radicalmente cambiato: grazie ai social media, le persone hanno accesso ad un numero molto più elevato di informazioni e hanno la possibilità di mantenersi in contatto in maniera più semplice ed immediata con familiari e amici rispetto al passato. Il risultato di questo processo, di grande importanza per le imprese, è che siamo in un’epoca che è possibile definire “the golden age of customer influence”.

Ne deriva la necessità per imprese e startup di adattarsi al meglio a questa nuova realtà, cercando di rispettare e sfruttare il grande potere che oggi è nelle mani dei clienti: il problema è che troppo spesso le aziende cercano di adattarsi ad una situazione totalmente nuova con metodi tradizionali, basandosi sul percorso strategico di acquisizione/monetizzazione.

Una strategia del genere è troppo semplice per l’attuale situazione in cui si trova il mercato globale: la soluzione per ottenere una strategia efficace e sostenibile può essere quella di applicare il “4 Gears Model” teorizzato da Geoffry Moore (autore di alcuni importanti libri sul tema dello sviluppo tecnologico e delle strategie di mercato, tra cui “Crossing the Chasm”).

Il modello di Moore fornisce infatti un modello affidabile per adattare le strategie imprenditoriali all’attuale social marketplace, in cui l’obiettivo strategico fondamentale che l’azienda deve perseguire è quello di costruire e “far girare” contemporaneamente i quattro “ingranaggi” previsti dal modello.

Il punto di partenza sulla base del quale Moore ha costruito il suo modello è, infatti, l’ampia diffusione dei social: grazie a questi strumenti, i clienti possono condividere un’enorme quantità di contenuti sul web. La strategia social implementata dall’azienda deve essere in grado di adattarsi a tale circostanza, cercando di trarne vantaggio: ciò significa che l’azienda deve guidare un percorso di creazione e crescita di una base di clienti fidelizzati, con i quali costruire delle relazioni durature.

Per ottenere una strategia di questo tipo, che sia efficace e sostenibile, non basta più (come accennato) limitarsi al modello acquisizione/monetizzazione: occorre implementare un sistema di quattro “ingranaggi” interdipendenti sui quali lavorare.
I quattro “ingranaggi” cui Moore si riferisce sono:

1) Acquisition: è il meccanismo che consente all’azienda di attrarre e mantenere nuovi clienti. Si tratta della leva “di partenza”, il primo “ingranaggio” su cui implementare l’intera strategia social. Inoltre, l’Acquisition va di pari passo con il secondo ingranaggio previsto dal modello, l’Engagement.

2) Engagement: è il processo che, in prospettiva, costruisce e mantiene viva la fedeltà a lungo termine della clientela.

L’Engagement è il primo passo per costruire relazioni con i clienti acquisiti, e lo scopo è quello di instaurare rapporti basati sulla fedeltà al brand: è un processo che richiede tempo e attenzione basato sulla reciprocità della comunicazione tra i clienti e con i clienti, ma bisogna fare attenzione a configurarla in modo tale che i clienti non siano considerati semplicemente obiettivi per l’acquisizione di nuove entrate. L’Engagement è infatti un processo di comunicazione trasparente e autentico tra il brand e i clienti, basato sulla fiducia e sulla necessità di costruire un rapporto brand-cliente forte e duraturo.

Per capire lo stretto legame che intercorre tra le prime due leve (o ingranaggi) è importante osservare la differenza tra social network e community: entrambi sono utili per guidare l’interesse e accrescere la consapevolezza dei clienti, ma i social network (ad esempio Facebook, Twitter e LinkedIn) nascono sulla base di relazioni interpersonali pre-esistenti tra le persone, mentre le community (ad esempio YouTube, Instagram e Pinterest) si basano sugli interessi comuni tra i partecipanti.
Per questo motivo, i social network sono utili in fase di Acquisition perchè offrono una grande opportunità di visibilità per il marchio e per l’azienda, mentre le community sono indispensabili per l’Engagement, in quanto sono più focalizzate su interessi particolari e offrono contenuti più rilevanti per i clienti.

Una volta messi in moto i meccanismi dell’Acquisition e dell’Engagement, i clienti diventano dei veri e propri partner dell’azienda, impegnati nella crescita del brand: a questo punto è possibile per l’azienda passare agli “ingranaggi” successivi, creando clienti fidelizzati in grado di co-costruire il successo dell’azienda (Enlistment) e costruendo un meccanismo sostenibile per il successo economico del business (Monetization).

3) Enlistment: è un ambiente che consente ai clienti di partecipare al business in maniera innovativa, attraverso il quale l’azienda può acquisire nuovi clienti e generare idee per nuovi prodotti.
Si tratta di un processo che comporta il coinvolgimento dei clienti nel business, basato sulla collaborazione e l’apprendimento reciproco tra brand e clienti in modo tale da ottenere un valore altrettanto reciproco.
Gli strumenti più utili per mettere in funzione l’ingranaggio di Enlistment sono la co-creation e la gamification: la co-creation è un vero e proprio processo di “arruolamento” dei clienti che collaborano alla condivisione e creazione di contenuti. La gamification è un sistema che il brand può utilizzare per coinvolgere i clienti che non hanno alcun obbligo di collaborazione: si utilizza il gioco per incoraggiare comportamenti prevedibili e produttivi del cliente/giocatore. In questo modo, i clienti vengono coinvolti attraverso un meccanismo di crowdsourcing che può riguardare svariati aspetti, dal servizio clienti all’innovazione di prodotto: in cambio, i clienti/giocatori ottengono punti e altre tipologie di premi e vantaggi.

4) Monetization: è la leva che definisce e quantifica la performance aziendale, ed è assolutamente necessario che i primi tre ingranaggi siano messi in moto e funzionino a pieno regime per ottenere dei risultati a lungo termine in chiave “Monetization”.
L’arruolamento dei clienti social che hanno attraversato le prime tre fasi del modello consente all’azienda di creare user-generated-content, costruire una base di conoscenza condivisa, accrescere il passaparola: tutti questi aspetti sono indispensabili per il successo aziendale, ma è difficile quantificare il loro impatto sul ROI dell’azienda.
Per ottenere dei buoni risultati occorre riuscire ad integrare nella migliore maniera possibile la social strategy con i “monetizazion engines”, ad esempio l’e-commerce o i sistemi CRM, che consentono di convertire le vendite in ricavi.

La strategia social, per essere sostenibile, deve quindi prevedere il funzionamento di tutti e quattro gli “ingranaggi”. Questi ultimi, inoltre, devono muoversi in maniera interdipendente per poter garantire il successo dell’impresa a lungo termine. Una strategia basata sul 4 Gears Model implementata in maniera corretta consente ai clienti di partecipare attraverso i social, aiutando l’azienda nella creazione di contenuti attendibili, rimanendo fedeli più a lungo e consentendo di reclutare nuovi clienti.
Il risultato di una strategia social efficiente è l’aumento delle vendite, la crescita dei margini e un vantaggio competitivo forte e duraturo.

Fonti:

Per maggiori informazioni sul “4 Gears Model”:

Napoli, 28/04/2014

I falsi miti per le startup in tema di crescita e scalabilità

La scalabilità è uno degli aspetti che caratterizzano una startup, in particolare una startup tecnologica: tutti i business plan di un’azienda di questo tipo, prima o poi, devono prevedere una strategia per scalare a livello globale. Scalare in maniera errata, però, può essere il modo più facile e veloce per portare una startup al fallimento: di questo tema hanno recentemente parlato Robert Sutton e Huggy Rao, con il loro “Scaling Up Excellence”.

Sutton e Rao sono tutor esperti di startup tecnologiche a Stanford, e nel loro lavoro hanno studiato i casi di maggior successo di startup che hanno scalato il mercato globale..
In un pubblicato da “Startup Smart” con la firma di Rose Powell, sono raccolti alcuni spunti fondamentali per capire il processo di scalabilità più adatto ad una startup tecnologica, partendo dai cinque falsi miti più frequenti sull’argomento.

1) Scalare è un processo di rapida crescita basato su decisioni rapide

Guardando a casi di successo globale come Twitter, Google e Facebook sembra naturale pensare che tutte le decisioni e i momenti fondamentali per l’implementazione del processo di crescita siano state prese in tempi brevi. In realtà, Sutton afferma che le decisioni fondamentali per il processo di scalabilità delle aziende di maggior successo sono state prese con calma, prendendosi il tempo giusto per riflettere.

Un esempio chiave di quanto sia importante concentrarsi sui risultati anziché sui tempi di execution è il processo di assunzione del personale (tema che abbiamo affrontato di recente in questo post del nostro blog): Sutton spiega questo punto prendendo ad esempio Google, che fin dall’inizio ha sempre trattato con grande attenzione il processo di selezione del personale, dimostrandosi molto esigente. Le persone assunte da Google sono molto abili tecnicamente e dotate di grandi capacità di leadership per far sì che il personale potesse crescere insieme alla società.

Sutton specifica che, pur mantenendo un atteggiamento esigente e rigoroso, i founders di una startup devono occuparsi delle selezioni del personale senza mostrare arroganza, né la convinzione che il loro business scalerà a livelli globali.

2) Il conflitto uccide la società

Quando una startup inizia a crescere, diventa inevitabile affrontare alcuni argomenti nel team, come ad esempio gli aspetti del business su cui focalizzarsi: Sutton è convinto che imparare a discutere in maniera costruttiva all’interno del team, anche di fronte ad eventuali divergenze, è di vitale importanza per la crescita di una startup.

Fondamentale da questo punto di vista la chiarezza, il rispetto e la condivisione da parte di tutti i membri del team degli obiettivi a medio termine della startup. Inoltre, è importante secondo Sutton seguire l’esempio di FIrefox: quando il CEO John Lily si è reso conto che i suoi dipendenti iniziavano a temerlo, ha deciso di affrontare regolarmente gli argomenti riguardanti le decisioni da prendere per la crescita del business assieme agli altri membri del team, dando a ciascuno la possibilità di esprimere il proprio parere.

3) Per scalare occorre aumentare il numero di membri del team più velocemente possibile

Secondo Sutton, un’altro falso mito pericoloso per una startup in fase di crescita è la convinzione che, quando si tratta del team, “più grande è, meglio è”: l’idea che per scalare sia fondamentale far crescere il numero di componenti del team è pericolosa per una startup. Selezionare il personale in fretta aumenta il rischio di scegliere le persone sbagliate.

Sutton aggiunge che, spesso, l’idea di aumentare il numero di dipendenti viene dalla pressione degli investitori: ciò accade perché hanno fretta di vedere fruttare il proprio capitale.
Ma una startup non ha bisogno di assumere personale, specialmente quando sta ancora sviluppando il prodotto/servizio che dovrà poi lanciare sul mercato. La scelta migliore per una startup è mantenere “lean” il business e la squadra, almeno finché non iniziano le vendite.

4) Dobbiamo restare piccoli, altrimenti la nostra cultura ne soffrirà

Sutton sfata immediatamente questo mito: la crescita rapida e globale non uccide una startup, se questa sa costruire il processo di scala in maniera smart. La chiave per mantenere intatta la cultura aziendale, infatti, è la stessa esaminata al punto precedente: mantenere team poco numerosi.

Ne è un esempio il caso di Amazon, il cui motto è “Non bisogna mai avere un team che non possa essere sfamato con due pizze”: la differenza tra un team di 5 persone e uno di 11, come spiega Sutton, è infatti enorme. Secondo le statistiche, la durata massima dei team numerosi è sette anni: dopo questo periodo, infatti, la comunicazione e i rapporti interpersonali iniziano a scemare.

La tendenza emergente, e più adatta alle startup, è quella di avere piccoli team come la startup australiana 99designs. Al crescere del numero di membri, infatti, la cultura aziendale si perde più facilmente perchè l’efficacia delle comunicazioni diminuisce.

5) La burocrazia e le gerarchie vanno evitate perchè uccidono l’innovazione e la produttività

Sicuramente la flessibilità sul lavoro è un aspetto piacevole per il team di una startup: ma questa può funzionare solo agli inizi. Quando una startup inizia a scalare, ha bisogno di implementare una struttura e definire dei processi, per crescere in maniera efficace sul mercato globale.

Sutton afferma che una startup in crescita ha bisogno di manager, organizzazione gerarchica e processi strutturati: basta poco, infatti, per trasformare la flessibilità in caos e mancanza di disciplina, rendendo il team un organismo fuori controllo. Le startup hanno invece bisogno di dotarsi di una struttura, di una leadership definita e di un processo ordinato a livello strategico per crescere a livelli globali.

Per leggere il post originale, qui il link di riferimento.

Napoli, 12/03/2014

Lo stage a San Francisco delle startup del CSI: un resoconto e alcuni consigli utili per chi vuole volare in Silicon Valley

Si è concluso da poco lo stage in San Francisco e nella Silicon Valley delle 7 startup insediate nel Centro Servizi Incubatore Napoli Est del Comune di Napoli, vincitrici della prima edizione di VulcanicaMente: dal talento all’impresa: Prenoda (qui il link al progetto I Parcheggiatori), Pushapp (che ha presentato il progetto Appetitoo), Finwin (qui il link al suo ultimo prodotto Comprassieme), Paqos (società creatrice di ItDoes), Rehub (con l’omonima community destinata al mondo accademico), Zeesty (con il suo sistema multipiattaforma rivolto al mondo della ristorazione) e SmartGo (impegnata nel settore della mobilità alternativa e delle bici a pedalata assistita pieghevoli evolute).

E’ innegabile che la meta, riferimento mondiale per le startup, trasmette tutto il suo fascino e la sua energia fin dal primo contatto, e ben vengano le oltre 14 ore di volo necessarie per raggiungerla da Napoli.

Lo stage è stato realizzato in partnership con la Fondazione Mind The Bridge, avente sede nel cuore del financial district di San Francisco, con lo scopo di fornire ai nostri imprenditori gli elementi di base per conoscere e accedere all’ecosistema locale.
Le nostre startup hanno avuto, quindi, la possibilità di lavorare nel coworking space di Mind The Bridge e di interagire con imprenditori e professionisti locali su tematiche quali “Introduzione alla Silicon Valley”, “Le regole per lavorare negli Usa”, “Avviare rapporti bancari negli Usa”, “Value proposition”, “Comunication skills”, ecc.. Durante la settimana c’è stata anche occasione per conoscere ed interagire con il Console Italiano a San Francisco, Mauro Battocchi.
Molto interessante è stata, inoltre, la possibilità di visitare la sede di alcune delle icone della Silicon Valley, quali Google, Stanford e Mobile Iron. In questi luoghi si è potuto toccare con mano il segreto dell’ecosistema economico, basato su un mix di ingenti capitali, menti eccellenti (sono presenti due delle più prestigiose Università del mondo) e cultura imprenditoriale (elevata propensione al rischio, radicata cultura del fallimento come opportunità, ecc.).

San Francisco appare un po’ come “la Disneyland delle startup” (cit.), gli eventi finalizzati a creare occasioni di visibilità ai talenti sono giornalieri e numerosissimi, per farsene un’idea basta consultare i seguenti canali:

La vera difficoltà sta nel crearsi un’agenda giornaliera e nel saper distinguere gli eventi validi, ovvero dove sono fornite reali occasioni di networking, da quelli più commerciali, che sono purtroppo una deviazione del sistema.

Tanti sono i ragazzi italiani che in San Francisco cercano di far crescere la loro idea di startup, anche perché se si vuole avere accesso all’ecosistema bisogna necessariamente essere sul posto. Noi ne abbiamo conosciuti alcuni di questi ragazzi, ognuno con una storia differente, qualcuno ha avuto già fortuna (con finanziamenti di venture capital milionari) altri cercano di crearsi un accesso ai contatti giusti. Infatti, per chi decide di andar lì, uno dei primi passi da fare è proprio quello di accreditarsi nel sistema locale, trovando soggetti che possano fare da “advisor” ossia fornire referenze spendibili. In particolare, un suggerimento è quello di lavorare nei tanti coworking space presenti in città, e da qui iniziare a far crescere la propria rete di contatti. A tal proposito, al rientro dallo stage a San Francisco, abbiamo chiesto ai nostri team altri suggerimenti per aspiranti startupper che decidono di volare in Silicon Valley a conoscere l’ecosistema locale e trovare spunti e contatti utili allo sviluppo dei loro progetti di impresa.

I punti sui quali ci siamo focalizzati sono essenzialmente tre:

1. L’elemento dell’ecosistema startup locale che l’Italia dovrebbe replicare al più presto
2. Il consiglio, l’insegnamento, l’esperienza più utile che hai ricevuto per lo sviluppo futuro del tuo progetto
3. Qualche consiglio utile per gli startupper italiani che vorrebbero andare a San Francisco: un luogo da visitare, un’esperienza da vivere, una persona da incontrare…)

Riguardo all’ecosistema locale e agli elementi più importanti da replicare nel nostro Paese, sembrano essere quasi tutti d’accordo sul fatto che sia alquanto difficile scegliere un singolo elemento. Il sistema Silicon Valley funziona in quanto insieme complesso e variegato, basato su una cultura d’impresa e non solo, che cresce e si autoalimenta in un circolo virtuoso tra gli elementi che lo compongono. Segnaliamo tra le risposte la mentalità basata sull’idea di “vincere assieme”, la necessità di aumentare gli spazi di coworking per consentire a startup diverse di confrontarsi e crescere insieme e quella di lavorare e migliorare l’integrazione tra Università e Ricerca, l’esigenza di accrescere i finanziamenti privati nel nostro Paese e di intervenire sulle politiche riguardanti i costi contributivi e fiscali per le startup.

Sul secondo punto, i team hanno risposto in maniera variegata: qualcuno ha segnalato momenti formativi, come la possibilità di seguire corsi su temi importanti ed innovativi quali l’Inbound Marketing e Autonomation, altri hanno posto l’accento sull’importanza fondamentale di seguire la metodologia Lean per il proprio business, con focus costante al mercato. In merito, l’esperienza a San Francisco ha rafforzato nei ns. startupper la consapevolezza che non tutti i mercati e i clienti sono uguali, ed è fondamentale osservarli per capire come impostare il proprio progetto di impresa. In tal senso, anche uno dei motti della Silicon Valley: “Make it real” ovvero agisci sempre per rendere reale il tuo progetto. Infine, ancora una volta torna il tema del confronto e della condivisione: l’esperienza negli spazi di coworking di San Francisco ha dato molto ai ragazzi, facendogli capire l’importanza dell’incontro e della collaborazione per la crescita di una startup.

Infine, una serie di piccoli e grandi suggerimenti e consigli utili per chi è deciso a visitare la Silicon Valley e trarre dall’esperienza il meglio per la propria idea di impresa: confrontarsi con chi dall’Italia adesso vive in Silicon Valley, per conoscere la sua esperienza e per conoscere i contatti e i posti giusti da frequentare; organizzare al meglio prima di partire una vera e propria agenda (consigliata la già citata piattaforma Meetup, ritenuta uno strumento indispensabile per individuare gli eventi migliori per startupper); partecipare agli eventi di networking serali, dove è possibile presentare il proprio progetto ricevendo feedback e partecipando a contest con la votazione dei partecipanti, visitare alcune tra le aziende più importanti al mondo tra cui Twitter (attenzione: ricordatevi di prenotare la visita con qualche giorno di anticipo!), Autodesk e Mozilla; ma è importante anche ritagliare dei momenti per godersi la vera città, magari salendo su un autobus e scendendo all’ultima fermata. San Francisco è un luogo dove è possibile incontrare persone che possono aiutarti (o che tu puoi aiutare), dove ad ogni angolo si può scoprire qualcosa che dà ispirazione, dove c’è un entusiasmo e una voglia di fare che si traducono in opportunità continue.

Se desiderate ulteriori informazioni sulla nostra esperienza in San Francisco, scriveteci pure a info@incubatorenapoliest.it.

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Napoli, 17/12/2013