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Tag: steve blank

Come costituire un team di successo con i consigli di Steve Blank

In un post recentemente pubblicato sul suo blog, Steve Blank affronta un argomento di cui si parla poco: le caratteristiche che un team di founders deve possedere per creare una grande startup.
Il presupposto di partenza di Blank è che esistono tre figure fondamentali in una startup, con differenti caratteristiche: il founder, il team dei founders e il founding CEO.
Vediamo quali sono le definizioni di Blank e le caratteristiche che ciascuna di queste figure deve possedere a suo parere per costruire una startup di successo.

1) Il Founder: l’idea
Il founder è, secondo Blank, colui che è in possesso di un’idea originale, una scoperta scientifica, un’innovazione tecnologica, un’intuizione, una passione: il founder recluta i co-fondatori, che coinvolge giorno per giorno nel processo di creazione della propria startup.

Blank pone l’accento su due aspetti che ritiene fondamentali: il primo, riguarda la capacità di distinguere tra un’idea innovativa che potrà effettivamente trasformarsi in un’impresa di successo e un’idea che non potrà mai essere commercializzata .
Il secondo aspetto fondamentale è che bisogna essere consapevoli che, nel momento in cui si costituisce un team, non è detto che il founder che ha avuto l’idea debba necessariamente assumere la leadership: è qui che Blank anticipa la differenza fondamentale tra founder e CEO, che sarà spiegata meglio più avanti.

2) Il Founding Team: the rock on which to build the company
Il gruppo che costituisce la società (che Blank definisce come la roccia su cui costruire la società) è formato dal founder e da un ristretto team di co-fondatori in possesso di competenze complementari a quelle del founder.
Si tratta del team che dovrà assicurarsi di partire dall’idea originale per trovare il miglior modello di business ripetibile e scalabile, con un product/market fit, dopo aver effettuato tutti i test necessari su ogni aspetto del business model (pricing, canali distributivi, partner, costi, etc.).
Secondo Blank non esiste un “numero magico” per i componenti di un team, ciò che conta davvero sono le competenze in possesso dei fondatori: queste ultime devono essere quelle più adatte a mettere in pratica l’idea imprenditoriale, e devono essere complementari tra loro.
Blank consiglia agli aspiranti startuppers di porsi due domande per decidere se una persona debba essere o meno un co-founder: bisogna chiedersi se è possibile avviare la società senza quella persona, e se è possibile trovare qualcun altro simile. Se entrambe le risposte sono negative, quella persona sarà un co-founder. Secondo Blank, inoltre, se la risposta ad una delle due domande è “sì”, quella persona dovrà essere assunta in seguito tra i primi dipendenti della startup.

Tra le caratteristiche chiave che Blank elenca per un team di founders vincente, ritroviamo la passione, la determinazione, la tenacia, la curiosità ed il rispetto reciproco: è fondamentale che i co-founders valutino la loro capacità di lavorare insieme come un gruppo affiatato, con coraggio e fiducia per gli altri membri del team.

3) Founding CEO: Reality Distortion Field e Comfort in Chaos
Secondo Blank, la visione idealista della leadership collettiva, senza una persona responsabile di prendere le decisioni, è il modo più veloce perchè la startup esca dal mercato. Nel mondo delle startup, la velocità, il ritmo e le decisioni prese senza timore sono fondamentali per mantenere il vantaggio competitivo: per questo, è fondamentale che ci sia un CEO che prenda le decisioni in maniera rapida ed immediata.

Il Founding CEO è il “primo tra uguali” in un team di fondatori, e secondo Blank spesso non è il più intelligente del gruppo: ciò che distingue un Founding CEO dai co-founders è la loro capacità di guardare la realtà in una maniera distorta, caratterizzata dalla totale assenza di paura che essi usano per mandare avanti la società.
Tra le caratteristiche più importanti del Founding CEO, Blank elenca la passione, la dedizione totale alla mission della società e l’abilità di comunicare la loro idea che, seppur apparentemente folle, è in grado di cambiare il mondo.
Inoltre, Blank spiega che il Founding CEO è totalmente a proprio agio nel caos e nell’incertezza: ciò è fondamentale in una startup, dove bisogna affrontare quotidianamente i problemi di sviluppo del prodotto, o le difficoltà di acquisizione dei primi clienti. Si tratta di situazioni in continua evoluzione che spesso sfociano improvvisamente in scenari imprevedibili: per dirlo con le parole di Blank, il Founding CEO cerca ogni giorno di risolvere un’equazione in cui quasi tutte le variabili sono ignote.
Un grande Founding CEO è in grado agire per modificare lo status della situazione, senza stare ad aspettare che qualcuno gli dica cosa fare.

La conclusione di Blank è che conoscere le differenze tra Founder, Founding Team e Founding CEO è fondamentale per gli aspiranti startuppers che potranno costruire il proprio team scegliendo i compagni di viaggio con cui costruire una startup di successo.

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Napoli, 26/08/2013

Il ruolo degli Angel Investors nella gestione delle Startup secondo Steve Blank

Nell’ultimo post pubblicato sul suo blog, Steve Blank affronta il tema della differenza tra Advisory Board (il comitato consultivo) e il Consiglio d’Amministrazione dell’azienda.

Il suo discorso prende spunto dai dubbi di alcuni suoi ex studenti attualmente impegnati nel lancio della propria startup, che hanno trovato un angel investor (Oren, che precedentemente lavorava per Google) il quale ha chiesto di essere presidente del Consiglio d’Amministrazione della loro azienda.

I membri del team sono convinti che tutti gli investitori abbiano diritto ad un posto nel CdA delle startup che finanziano: Blank però non è d’accordo. Per spiegare il perchè, innanzitutto elenca i vari ruoli che un investitore può assumere in una startup:

– membro del CdA;
– osservatore (inteso come colui che partecipa alle riunioni del CdA ma non ha diritto di voto);
– advisor (membro del consiglio consultivo);
– nessun ruolo attivo nella gestione dell’azienda.

Blank spiega come negli ultimi anni sia sempre più comune la richiesta da parte degli angel investors di avere un posto nel CdA, ma la domanda che si pone è quanto questa prassi sia positiva per le startup.

A questo punto Blank spiega più nel dettaglio chi è e cosa fa un membro del CdA quando ha diritto di voto: non è un amico del team, bensì assume il ruolo di capo. Egli ha infatti un dovere ed una responsabilità nei confronti di azionisti e altri soci, che non ha sicuramente nei confronti dei founders.
L’investitore con un posto in CdA ha l’obbligo di ottimizzare i risultati dell’azienda, e se ciò non avviene può licenziare il team.

Di fronte a questa spiegazione, i founders della startup sono stupiti: si domandano come possono fare ad avere i consigli esperti di cui hanno bisogno per far crescere la propria azienda, se non lasciano entrare il loro business angel in CdA!

Ma è proprio qui che, secondo Blank, entra in gioco il ruolo degli Advisors: sono i componenti del comitato consultivo, un soggetto che non ha potere decisionale in azienda ma offre consulenze su argomenti di grande interesse per le startup, come lo sviluppo del network di contatti utili e il modo migliore per avvicinarsi agli investitori.

A differenza del CdA, l’Advisory Board non diventa il capo: non può licenziare il team o avere un controllo sulle politiche aziendali. Le startup spesso si avvalgono di consulenze esterne quando ne hanno bisogno, ma Blank sostiene che sarebbe molto più utile avere un comitato consultivo interno, che conosca bene il team e l’azienda.

La conclusione di Steve Blank è che nelle fasi iniziali, la startup dovrebbe evitare di dare ad un investitore esterno grossi poteri decisionali all’interno del CdA: sarebbe molto più opportuno inserire gli investors nell’Advisory Board, mantenendo il controllo sulla società. In seguito, quando la startup avrà raggiunto fasi di maggiore sviluppo, potrà decidere di dare agli investitori un posto nel CdA.

Napoli, 15 luglio 2013

Steve Blank: le sei tipologie di startup

In un articolo comparso recentemente su The Accelerators, il blog sulle startup del Wall Street JournalSteve Blank spiega come non tutte le startup sono uguali: esistono almeno sei tipologie differenti di startup, e per ciascuna di esse ci sono caratteristiche peculiari di cui tener conto.

Secondo Blank, infatti, le tipologie di startup sono: lifestyle, di piccole dimensioni, scalabile, acquisibile, sociale e all’interno di una grande azienda. I fondatori di queste aziende sono tutti imprenditori, ma ci sono differenze significative tra le persone da coinvolgere, gli strumenti di finanziamento e le strategie da mettere in pratica. Se non si tengono presenti queste differenze, scrive Blank, è probabile che si vadano ad abbassare le probabilità di successo della startup.

Nel suo articolo, Blank analizza uno alla volta le sei tipologie, partendo con quella che definisce Lifestyle Startups: Work to Live Their Passion. Gli imprenditori lifestyle sono paragonati ai surfisti californiani, che danno lezioni di surf per pagare le bollette in modo da poter stare un po’ di più in acqua. queste persone vivono la vita che amano, non lavorano per nessuno, ma per se stessi per perseguire la loro passione personale. Quello che Blank indica come “l’equivalente in Silicon Valley” è il programmatore o web designer dipendente, che ama la tecnologia e accetta lavori di coding e U/I, per poter perseguire con tali incarichi la sua passione.

La seconda “categoria” è quella che Blank definisce “Small-Business Startups: Work to Feed the Family”. Si tratta della maggioranza delle startup presenti attualmente negli Stati Uniti, nelle quali l’imprenditore è colui che gestisce direttamente l’attività. Si tratta di persone che investono il proprio capitale nel business (o quello preso in prestito da familiari e amici, o dalle banche), assumendo spesso familiari o persone del luogo come dipendenti. Spesso queste attività sono a malapena redditizie, ma nella maggior parte dei casi questi imprenditori sono quelli che Blank definisce più rappresentativi del concetto di “imprenditorialità”, in quanto lavorano con passione e dedizione creando nuovi posti di lavoro a livello locale.

Blank prosegue con le Scalable Startups: Born to Be Big: è questo terzo tipo di startup quello che tutti gli imprenditori e venture capitalist della Silicon Valley sognano. Esempi di questo tipo di startup sono nomi come Google, Twitter, Skype e Facebook: startup in cui i founders lavorano fin dal primo giorno con il desiderio di cambiare il mondo. Il loro scopo finale non è quello di guadagnarsi da vivere, bensì quello di scalare il proprio business e costruire un’azienda che verrà quotata in Borsa o acquisita con profitti di svariati milioni di dollari. Per funzionare davvero, le startup scalabili necessitano secondo Blank di venture capitalist che siano folli almeno quanto i founders: questi ultimi hanno infatti bisogno di ingenti quantità di capitale di rischio per costruire il proprio modello di business ripetibile e scalabile.

Dopo le startup scalabili, Blank esamina quelle che definisce “Buyable Startups: Acquisition Targets”. Blank spiega come negli ultimi anni i costi e i tempi per avviare una produzione nel settore delle applicazioni web e mobile sono diminuiti vertiginosamente. Ciò significa per le startup la possibilità di bypassare i VC tradizionali e rivolgersi a business angels o al crowdfunding per finanziare il proprio avvio. Il rischio per questo tipo di startup è quello di vendere per cifre tra i 5 e i 50 milioni di dollari delle imprese che in realtà potrebbero fruttare miliardi di dollari di profitti.

Blank dedica a questo punto la propria attenzione alle “Social Startups: Driven to Make a Difference”. Le startup sociali sono guidate da imprenditori che non hanno nulla da invidiare ai loro colleghi di altri settori, in termini di ambizione, passione e voglia di raggiungere gli obiettivi prefissati. La differenza rispetto alle startup scalabili sta nel fatto che il loro obiettivo è quello di rendere il mondo un posto migliore, non gli interessa prendere quote di mercato o creare ricchezza per i fondatori. Queste startup possono essere senza scopo di lucro, a scopo di lucro o ibride.

Infine, Blank spiega quali sono le caratteristiche delle “Large-Company Startups: Innovate or Evaporate”: esse nascono dalla constatazione che il ciclo di vita di una grande azienda è finito e, negli ultimi anni, si è fatto decisamente sempre più breve. Ormai è chiaro che l’approccio “Lean” non è più da riservare esclusivamente alle startup: si tratta di regole e politiche che sono molto utili anche per le grandi aziende già consolidate. Non è più sufficiente, infatti, concentrarsi sull’esecuzione e il miglioramento del modello di business esistente: per sopravvivere nel nuovo contesto economico, le grandi aziende devono puntare ad un approccio innovativo, che riesca a dar vita a nuovi modelli di business attraverso il ricorso a nuovi modelli organizzativi e nuove competenze (trovate qui un altro articolo del nostro blog su questo argomento).

In conclusione, Blank afferma che tra tutte queste tipologie di startup, differenti in termini di obiettivi di mercato, team di lavoro e strumenti di finanziamento, c’è un punto in comune: bisogna cambiare il punto di vista “classico” secondo cui le startup vanno trattate come versioni “in piccolo” delle aziende consolidate e prevedere approcci e strategie innovative che si adattino al nuovo contesto economico e siano il più possibile ripetibili e scalabili.

Napoli, 03/07/2013

 

 

I 4 tipi di mercato e la Customer Discovery per start up: i consigli di Steve Blank

In un recente post pubblicato nel blog The Accelerators del Wall Street Journal, Steve Blank parla delle 4 tipologie di mercato e dà consigli agli aspitanti startupper per approcciarsi a ciascuna di esse: il punto di partenza è che ogni mercato ha le proprie caratteristiche e la startup dovrà affacciarsi ad esso con gli strumenti giusti, per ottenere le informazioni di cui ha bisogno senza spendere grosse cifre per strategie di marketing e di pricing.

Le quattro tipologie di mercato analizzate da Blank sono: mercati Existent, mercati Resegmented, mercati New e mercati Clone. Ognuna di esse ha le proprie peculiarità in termini di modelli e cicli di vendita e le startup, per poter competere, dovranno concentrarsi su diversi aspetti. I primi due sono i mercati in cui è effettivamente possibile procedere alla misurazione della domanda, mentre gli ultimi due sono mercati in cui non è possibile ottenere dati sulle grandezze del mercato, ma è comunque possibile ricavare informazioni utili.

MERCATI EXISTENT E MERCATI RESEGMENTED

I mercati Existent sono, come suggerisce il nome, i mercati già esistenti. In questo tipo di mercato è possibile misurare tutte le grandezze utili per capire quali sono le opportunità effettive per la startup: il numero di clienti, i concorrenti, il tasso di crescita, ecc. Si tratta di una situazione in cui è possibile reperire facilmente le informazioni su clienti e concorrenti, e il modo per vincere su questo tipo di mercato è quello di arrivare meglio e più velocemente a soddisfare i bisogni-chiave dei clienti.
In un mercato esistente è quindi indispensabile applicare gli strumenti di Customer Development e incontrare i clienti degli operatori già presenti sul mercato. Le informazioni di cui la startup ha bisogno in questo caso per valutare la domanda riguarderanno:

  • Aspetti alla base della concorrenza (velocità, prestazioni, prezzi, ecc.);
  • Come gli operatori attualmente presenti sul mercato soddisfano i bisogni della clientela;
  • Cosa potrebbe fare la startup per convincere i clienti ad acquistare il suo prodotto.

I mercati Resegmented sono monopoli o duopoli, in cui esistono già operatori che detengono la quota dominante di mercato. Blank avverte: una startup che opta per un “attacco frontale” su un mercato di questo tipo va incontro quasi certamente ad un fallimento. L’unico modo per entrare in un mercato del genere è quello di risegmentarlo: la startup deve trovare qualche caratteristica non ancora offerta dagli operatori dominanti ed incorporarla al proprio prodotto, per presentarsi ad una nicchia di clienti.
Un esempio proposto da Blank è il caso di un segmento di clienti che potrebbero essere soddisfatti anche da una versione “abbastanza buona” del prodotto offerto dagli operatori dominanti: la startup potrebbe in questo caso presentarsi come un produttore di una versione low cost del prodotto.
Per risegmentare il mercato è quindi fondamentale comprendere i bisogni del cliente: Blank sottolinea che la comprensione dei bisogni è assolutamente diversa dall’opinione che la startup può avere di questi ultimi, per cui sarà indispensabile anche stavolta incontrare i clienti e chiedere le informazioni di cui la startup ha bisogno.
Nei mercati Resegmented le informazioni utili sono quelle che consentono di capire:

  • Quale bisogno non è soddisfatto gli operatori storici;
  • Quali sono le caratteristiche del prodotto offerto dagli operatori storici;
  • Quanto e in che modo i clienti sono attualmente soddisfatti dagli operatori storici;
  • In che modo la startup può ottenere il passaggio del cliente dal prodotto già presente sul mercato al proprio prodotto.

I mercati Existent e i mercati Resegmented sono quelli in cui è effettivamente possibile misurare la domanda. Secondo Blank, gli strumenti più adatti per questa misurazione sono quelli di Customer Discovery: bisogna incontrare i clienti faccia a faccia per verificare se c’è un problema o un’esigenza che i prodotti attualmente offerti dal mercato non riescono a soddisfare. Qualora si riscontri effettivamente un problema da risolvere, è possibile per la startup andare al passaggio successivo e proporre la propria soluzione ai potenziali clienti per verificare il loro livello di interesse/entusiasmo. Blank suggerisce alcuni strumenti utili:

  • Creazione di un sito web o di un blog semplice e poco costoso per descrivere il prodotto o il problema che risolve. Il consiglio di Blank è di aggiungere un pulsante di grandi dimensioni per condividere la pagina con gli amici. Bisogna fare attenzione al livello di traffico che si genera, ma anche al numero e la percentuale di persone che riferiscono le informazioni ad altri, al numero di coloro che vengono al sito, e soprattutto a quanti decidono di “impegnarsi” lasciando il proprio indirizzo e-mail, chiedendo ulteriori informazioni, ecc.
  • Intervistare 50 persone al giorno (non è importante dove, Blank ad esempio suggerisce un parco, uno Starbucks, l’esterno di un negozio). Si suggerisce di mostrare loro una semplice foto del prodotto o del pacchetto e di fargli 3-5 domande.  Vanno considerate attentamente le risposte che corrispondono almeno al livello B+ (85% di entusiasmo).
  • Creazione di una serie di campagne pubblicitarie (Blank suggerisce Google Adwords) per cercare di spingere la gente ad uno specifico sito web. La startup dovrà cercare di capire quali sono le frasi e le parole chiave che guidano più traffico. Per approfondire l’analisi, Blank suggerisce di guardare la percentuale di persone che esprimono interesse, si iscrivono, visualizzano più pagine o indicano in qualsiasi altro modo una propensione all’acquisto.
  • Creazione di un “Dry test”. Si tratta di offrire in vendita il prodotto della startup, acquistando alcuni banners per guidare la gente alla pagina “buy”. Blank specifica che il Dry Test non prevede l’effettiva monetizzazione dell’acquisto: ciò che è importante è capire la percentuale di visitatori che cliccano effettivamentesul pulsante “buy”, dove – invece di prendere i dati delle carte di credito per concludere l’acquisto – si dice: “Grazie. Si prega di lasciare il tuo indirizzo e-mail qui e ti contatteremo non appena il prodotto è pronto”.

MERCATI NEW E MERCATI CLONE

Il mercato New è un mercato nuovo, in cui non ci sono ancora prodotti, concorrenti e clienti: si tratta di una situazione in cui non ci sono grandezze misurabili, ma è comunque necessario reperire informazioni.
Secondo Blank, una startup che decide di affacciarsi ad un nuovo mercato deve anche in questo caso parlare con i potenziali clienti: è fondamentale “uscire dall’edificio” per non correre il rischio di trascorrere anni a sviluppare un prodotto che non incontri le esigenze ed i bisogni delle persone.
In un mercato New, le informazioni utili per la startup sono differenti da quelle dei mercati già esistenti o da risegmentare. Secondo Blank l’obiettivo è quello di comprendere quali sono i bisogni e le abitudini attuali del cliente, come questi cambieranno con l’arrivo del nuovo prodotto sul mercato e quali altri cambiamenti (culturali, tecnologici, ambientali, economici, ecc.) potranno influire sul business della startup.

Il mercato Clone è quello in cui una startup decide di importare un modello di business di successo da un altro Paese (solitamente dagli USA) per riproporlo nel proprio Paese. Non è possibile avere dati certi perchè spesso il paese da cui proviene il clone ha delle proprie caratteristiche peculiari in termini di mercato, cultura, lingua, regolamentazioni e normative: ciò che la startup deve riuscire a capire è se questo modello di business funzionerà anche nel proprio Paese.
Anche in questo caso, Blank spiega come la Customer Discovery sia utile alla startup per ottenere informazioni sulla domanda di mercato. Il processo è simile a quello analizzato per i mercati Resegmented: bisogna capire se secondo i clienti c’è un problema da risolvere (o un bisogno da soddisfare) e, successivamente, proporre il proprio prodotto e verificare il livello di interesse/entusiasmo dei clienti.

In conclusione, dall’articolo di Blank si comprende ancora una volta l’importanza del Customer Development per una startup: è fondamentale uscire dall’edificio e incontrare faccia a faccia i clienti per capire di cosa hanno bisogno, senza basarsi su ipotesi e supposizioni.

Fonte: Wall Street Journal

Napoli, 22/05/2013

Il Minimum Viable Product spiegato da Eric Ries, autore del libro The Lean Startup

Il Minimum Viable Product (MVP) è uno dei concetti introdotti dall’approccio “The Lean Startup” di cui abbiamo parlato in un recente articolo del blog.
Per capire meglio di cosa si tratta, prendiamo spunto dalle slides pubblicate da Eric Ries nel suo blog “Startup Lessons Learned“, nelle quali Ries descrive i due possibili approcci di una startup alla costruzione di un nuovo prodotto:

  • “Massimizzare le possibilità di successo” significa costruire da subito un prodotto di alto livello, con un numero di caratteristiche abbastanza elevato da incuriosire i clienti per indurli all’acquisto. Questo tipo di approccio presenta l’inconveniente di non poter contare su nessun feedback fino alla fine del ciclo, quando sarebbe ormai troppo tardi per apportare modifiche al prodotto.
  • “Release early, release often” significa iniziare fin da subito con ripetuti lanci sul mercato di versioni rivedute e corrette del prodotto. In questo modo si inizia fin da subito ad ottenere feedback dai clienti, ma c’è il rischio di ritrovarsi in un circolo vizioso dove la startup continua a rincorrere ciò che pensa vogliano i clienti.

Il Minimum Viable Product rappresenta la via d’uscita ai problemi di entrambi gli approcci: si tratta di una versione iniziale del prodotto costruita in modo tale da ricomprendere il set minimo di caratteristiche indispensabili al team per capire cosa desiderano i clienti. Il Minimum Viable Product consente di ottenere il maggior numero possibile di informazioni con il minimo sforzo in termini di capitale, di tempo e di energie: grazie ad esso, la startup evita di mettere sul mercato un prodotto che nessuno vuole comprare.
La funzione del Minimum Viable Product è quindi quella di ottenere i feedback dai primi clienti in maniera da colmare il gap delle caratteristiche carenti nel prodotto, il suo utilizzo permette al team di avere una visione più ampia del mercato attraverso un percorso fatto di iterazioni e piccoli passi avanti, evitando il circolo vizioso cui si è fatto accenno prima.

Ries chiarisce però che il Minimum Viable Product non è, a dispetto del nome, un prodotto minimale: si tratta anzi di un prodotto che richiede alla startup uno sforzo supplementare (anche qui, in termini di capitale, tempo ed energie) perchè per essere davvero utile deve essere costruito in maniera tale da consentire al team di imparare qualcosa, per capire come agire al momento della prima iterazione.
Gli sforzi dovranno essere indirizzati all’ottenimento di feedback dai clienti, ma anche in un accurato lavoro di analisi e misurazione dei risultati.

Infine, Ries mette in guardia le aspiranti startup su alcune possibili situazioni in cui potrebbero ritrovarsi quando decideranno di approcciarsi allo strumento del Minimum Viable Product :

  • Falsi negativi: il team potrebbe ritrovarsi a pensare che ai clienti sarebbe piaciuto il prodotto completo, nella sua versione definitiva, mentre il Minimum Viable Product non è abbastanza “appetibile“. Pensando in questi termini, la startup potrebbe decidere di abbandonare il Minimum Viable Product.
  • Il complesso del visionario: si tratta della situazione in cui il team crede di conoscere quali siano i bisogni, i desideri e le esigenze del cliente, meglio del cliente stesso (“Ma il cliente non sa quello che vuole!“).
  • Troppo occupati per imparare: è il terzo caso delineato da Ries, quello in cui la startup pensa che il Minimum Viable Product sia “una perdita di tempo” e che sarebbe meglio costruire direttamente il prodotto finale da lanciare sul mercato.

In conclusione, il Minimum Viable Product è uno strumento di fondamentale importanza nel processo di crescita di una startup, che andrebbe utilizzato nonostante i costi aggiuntivi che comporta: tali costi, infatti, saranno ampiamente ricompensati dai vantaggi derivanti dal lanciare sul mercato un prodotto costruito sulla base delle esigenze dei clienti.

La presentazione di Eric RIes è consultabile al seguente link: http://www.slideshare.net/startuplessonslearned/minimum-viable-product

Napoli, 25/04/2013

The Lean Startup: l’approccio “snello” spiegato da Steve Blank

In un recente post pubblicato nel suo blog, Steve Blank introduce il suo articolo pubblicato nell’ultimo numero della Harward Business Review dedicato alla metodologia Lean per startup e a come l’applicazione di quest’ultima possa cambiare non soltanto l’andamento di un’impresa, ma addirittura possa avere ripercussioni positive sull’intero sistema imprenditoriale, fornendo una spinta importante per l’uscita dalla crisi economica mondiale.

Nella sua carriera di docente, imprenditore e founder di varie startup, Blank ha osservato quali fossero le cause di fallimento più frequenti per le startup e ha avuto l’intuizione di come queste in realtà non fossero quasi mai legate a caratteristiche del prodotto. Da qui, l’intuizione di analizzare meglio l’approccio “classico” di Product Development, per capire quali fossero i problemi. Tale approccio di avvio di un’impresa prevede un percorso “a cascata” che attraversa nell’ordine una serie di fasi: punto di partenza è la stesura del Business Plan, che viene proposto agli investitori. Segue l’organizzazione del team, il quale procede a sua volta alla creazione del prodotto, che viene poi immesso sul mercato. Blank osserva che in questo approccio deve esserci qualcosa che non funziona, visto che secondo le statistiche il 75% delle nuove imprese falliscono (Blank cita in proposito una ricerca condotta dalla Harvard Business School).

La sua conclusione è che il Business Plan non sia lo strumento più adatto ad un business in fase di avvio: secondo Blank, infatti, esso raramente sopravvive al primo contatto con i clienti. Il motivo è da ricercare prima di tutto nella pretesa di fare delle previsioni a lungo termine (il Business Plan prevede un piano quinquennale): il mercato oggi non consente più approcci del genere, è in continua evoluzione, e un piano del genere “è fantascienza”.
Altra learned lesson che Blank condivide con i lettori è che le startup non vanno considerate come versioni “in piccolo” delle grandi aziende: queste ultime devono concentrarsi per far funzionare il proprio modello di business già esistente, mentre una startup deve seguire un approccio differente, lavorare sull’iterazione e sul learning and discovery, migliorando di continuo il proprio prodotto sulla base dei feedback dei propri clienti.
Ragionando su queste intuizioni, Blank costruisce una definizione rivoluzionaria di startup che porterà al superamento del modello di Product Development, alla nascita del modello di Customer Development e in seguito alla definizione della metodologia Lean da parte di Eric Ries (imprenditore della Silicon Valley, studente di Blank e autore del manuale “The Lean Startup“): un’azienda in fase di startup è un organismo temporaneo, progettato per la ricerca di un modello di business ripetibile e scalabile.

A questo punto, Blank elenca i tre principi chiave di un approccio Lean adatto alle startup:

  1. Delineare le ipotesi. Piuttosto che impelagarsi in mesi di ricerca e progettazione per scrivere un intricato Business Plan pluriennale, i founder devono concentrarsi sul fatto che ciò che davvero conta è il primo giorno in cui testeranno la propria idea e le proprie ipotesi a riguardo: lo strumento più adatto è il Business Model Canvas, un diagramma che mostra come l’impresa crea valore per sè e per i propri clienti.
  2. Ascoltare i clienti. Secondo Blank le startup devono “uscire dal palazzo” e seguire il modello di Customer Development: esso consiste nell’incontrare i propri clienti e testare le proprie idee ed ipotesi. Con l’aiuto dei feedback ricevuti, i founder devono costruire in tempi brevi il “Minimum Viable Product“, la prima versione del prodotto, e immetterlo sul mercato per ricavare ulteriori feedback dai clienti. In questa fase, sono fondamentali la velocità e l’approccio “Agile“, che consentono di individuare eventuali modifiche da apportare (per le piccole modifiche si parla di iterazioni, per quelle più sostanziali di pivot).
  3. Sviluppo rapido e responsivo. Si identifica con il cosiddetto Sviluppo Agile, nato in origine nel settore dei software e applicato da Ries alle startup nel suo “The Lean Startup“. Lo sviluppo “Agile” lavora di pari passo con quello “Customer” garantendo un processo di sviluppo del prodotto iterativo ed incrementale che elimina gli sprechi di tempo e risorse tipici dei piani di produzione pluriennali. Si tratta in sostanza del processo che consente alla startup di creare il Minimum Viable Product con cui affacciarsi al mercato.

Attualmente, il metodo Lean di approccio alle startup si sta diffondendo sempre di più: Steve Blank spiega che attualmente sono più di 25 le Università che offrono corsi in materia, oltre ad alcuni corsi on-line. Sono sempre più numerose, inoltre, le organizzazioni e le iniziative dedicate, come Startup Weekend, che diffondono i principi della metodologia Lean in tutto il mondo.
Addirittura le grandi aziende stanno iniziando ad avvicinarsi a tale approccio, come Steve Blank racconta nel suo articolo, citando l’esempio della General Electric e della sua Divisione Energy Storage, che ha lanciato la sua ultima batteria applicando la metodologia Lean. Il direttore generale della Divisione, Prescott Logan, si è infatti impegnato a parlare con i propri clienti prima di lanciare la nuova batteria sul mercato, apportando modifiche ai piani sulla base dei feedback ricevuti e lanciando il nuovo prodotto sul mercato nel 2012 con un investimento di 100 milioni di dollari: il risultato è stato un enorme successo sul mercato, tanto che GE ha già una serie di ordini in arretrato che si sta affrettando a soddisfare.

Nel proprio articolo Blank afferma che la diffusione delle metodologie Lean consente di ridurre le probabilità di fallimento delle startup: ciò significa creare nuovi posti di lavoro che possano sostituire quelli eliminati dalle grandi aziende esistenti, dando nuova spinta all’economia globale e facendo un passo avanti verso l’uscita dalla crisi economica.
Per rafforzare la propria tesi, Blank parte dall’elencazione dei cinque fattori che limitano la crescita delle startup oltre al rischio di fallimento:

  1. Costi troppi elevati, sia per raggiungere i primi clienti che per risollevarsi in caso di difetti e problemi del prodotto.
  2. Cicli di sviluppo tecnologico troppo lunghi.
  3. Numero limitato di persone disposte ad assumersi il rischio di fondare una startup o di lavorare al suo interno.
  4. L’attuale struttura del settore del capitale di rischio, in cui poche imprese sono cosrette ad investire grosse somme di denaro in un portafogli di startup per avere la possibilità di ritorni significativi.
  5. La concentrazione delle competenze in materia di startup, problema molto diffuso soprattutto negli Stati Uniti (vedi Silicon Valley), ma presente in minor misura anche in Europa e nel resto del mondo.

Secondo Blank, l’approccio Lean è in grado di ridurre innazitutto primi due vincoli: le imprese che interagiscono con i propri clienti hanno a disposizione dei feedback per mettere sul mercato un prodotto più adatto ai loro bisogni, e i cicli di sviluppo fondati sull’iterazione e i pivot sono più rapidi ed economici rispetto a quelli basati sui sistemi tradizionali. Ne consegue la riduzione del rischio connesso alla creazione di nuove startup, quindi diminuisce anche la rilevanza del terzo vincolo.

Sono anche altre le tendenze attuali che aumentano la disponibilità ad investire nella creazione di nuove startup: prima di tutto la diffusione di software open source e servizi cloud, che non costringono più le aziende a dotarsi di stabilimenti propri per la produzione di prodotti hardware.
In secondo luogo, si assiste ad un’importante tendenza di decentramento riguardo al sistema di accesso ai finanziamenti: l’ecosistema attuale vede la nascita di business angel e venture capital ovunque, non occorre più stabilirsi nella Silicon Valley per ottenere un finanziamento per la propria startup.
Altro vantaggio rilevante per le nuove imprese è l’immediata disponibilità delle informazioni cui oggi si può avere accesso grazie a internet: non è più necessario organizzare incontri formali con gli investitori per poter parlare con loro.

La conclusione di Blank è che questo sia il momento più adatto a fondare una propria startup, e che la metodologia Lean sia quella migliore da applicare. Il suo post si conclude infatti con l’invito a leggere il suo articolo che sarà disponibile gratuitamente sul sito della Harvard Business Review per un mese: “Go read it … Then go to do it“.

Napoli, 19/04/2013

Il viaggio di Steve Blank in Cina: nuove frontiere dell’innovazione

Nei giorni scorsi Steve Blank ha pubblicato sul suo blog una serie di articoli che raccontano il suo recente viaggio in Cina per la promozione del suo ultimo libro “Startup Owners Manual“: un report in cui analizza la situazione passata e presente del Paese, il percorso verso l’innovazione e i possibili futuri sviluppi.

Nel 1949 nasce la Repubblica Popolare Cinese: da quel momento si assiste alla nazionalizzazione e cetralizzazione dell’intera economia del Paese, con la totale scomparsa del settore privato.
Oggi, l’economia cinese è un sistema sempre più fondato sullo sviluppo tecnologico innovativo che ha favorito la nascita di un ecosistema imprenditoriale avanzato, con grandi opportunità per startup e un moderno sistema di Venture Capital e Business Angel.
La domanda cui Blank cerca di rispondere nel suo primo post è come tutto ciò sia accaduto: egli ritiene che il percorso sia iniziato in maniera simile a quella vissuta dagli USA durante la Guerra Fredda, con un massiccio investimento in ricerca scientifica e tecnologica finalizzato alla modernizzazione dell’apparato militare nazionale. Tali investimenti hanno favorito lo sviluppo di nuove tecnologie ingegneristiche, digitali e di comunicazione, e hanno prodotto come “effetto collaterale” la nascita di un sistema caratterizzato da nuove startup e da una moderna mentalità imrenditoriale.
Infatti, a partire dal 1982 il Governo Cinese ha investito in una serie di interventi concentrati sui seguenti aspetti:

  • Ricerca di base
  • R&S nel settore high tech
  • Innovazione tecnologica e comunicazione
  • Infrastrutture di ricerca
  • Sviluppo delle risorse umane nei settori della scienza e della tecnologia.

Il più importante tra i programmi governativi di pianificazione centralizzata del governo cinese è senza dubbio il “Torch Program“, definito da Steve Blank come “la luce che può illuminare il mondo“. Il Programma si organizza in quattro ambiti di intervento che analizziamo più nel dettaglio:

  • INNOVATION CLUSTERS: la Cina è oggi, insieme a Israele e Singapore, il paese che meglio di tutti ha applicato il criterio di creazione di poli industriali allo scopo di garantire vantaggio competitivo alle imprese tecnologiche in esso ospitate. Tra questi, l’esempio più importante è a Pechino, dove Zhongguancun si afferma ogni giorno di più come la Silicon Valley cinese.
  • TECHNOLOGY BUSINESS INCUBATOR (TBI): secondo i dati, nel 2011 la Cina conta ben 1034 TBI che ospitano al loro interno oltre 60.000 startup. Di questi, circa il 20% sono a gestione privata. Da rilevare due aspetti fondamentali: la massiccia presenza di scienziati e ingegneri rientrati in Cina dopo esperienze formative all’estero e l’aumento costante delle strutture a gestione privata.
  • SEED FUNDING: il programma di finanziamento per startup più importante in Cina è l’Innofund, molto simile ai programmi di finanziamento statunitensi per lo sviluppo di startup innovative nel settore tecnologico. Dalla sua istituzione, l’Innofund ha ricevuto più di 35.000 candidature, finanziato circa 9.000 progetti e stanziato fondi per circa un milione di dollari: ciò nonostante, presenta l’inconveniente di una procedura di accesso lenta, macchinosa, ancora troppo legata al parere vincolante del governo sui progetti finanziabili.
  • VENTURE FUND GUIDING: istituito nel 2007, rappresenta il primo tentativo del governo cinese di introdurre VC privati nel sistema di finanziamento delle startup del Paese.

In conclusione del suo secondo post, Steve Blank afferma che la grande rilevanza del Torch Program sta anche e soprattutto nel fatto di aver introdotto nell’ecosistema imprenditoriale cinese concetti culturali tipici del mondo delle startup, come quelli di iterazione, pivot, learning & discovery.

Il terzo post è dedicato all’ascesa del Venture Capital in Cina e a come questo processo abbia favorito la crescita dell’ecosistema imprenditoriale del Paese. I primi investimenti in startup, come abbiamo visto, venivano da programmi statali e hanno favorito la nascita di spin-off e spin-out da parte di scienziati e ingegneri provenienti dal mondo dell’Università e della ricerca. Con il Torch Program è iniziata una seconda ondata di investimenti in VC con protagoniste le Banche. A metà degli anni ’90 le Banche e il governo cinese non erano più in grado di ricoprire l’intero fabbisogno di capitale di rischio delle startup del Paese: è così che sono entrati in gioco alcuni VC stranieri, concludendo il percorso di evoluzione del sistema di Venture Capital cinese da un’economia chiusa e centralizzata verso un sistema aperto e affacciato all’espansione globale, che rappresenta quello che Stebe Blank definisce il più grande sistema di Venture Capital al mondo dopo quello degli USA.

Tuttavia, negli ultimi due post sull’argomento, Blank racconta come nel suo viaggio abbia visto un forte divario tra le aree più moderne della Cina, come il già citato polo di Zhongguancun a Pechino, e le aree periferiche rurali dei villaggi.
La Cina si caratterizza infatti per una serie di contraddizioni e paradossi, provenienti dai retaggi di un sistema centralizzato che ancora oggi prevede il Great Firewall, che chiude le frontiere alla diffusione delle notizie dall’esterno oscurando i siti più diffusi e popolari nel resto del mondo, tra cui Facebook, Twitter e Youtube.
A ciò si aggiunge un sistema che, anzichè basarsi sull’innovazione, adotta un modello di sviluppo di nuove startup che si sostanzia nella clonazione di prodotti (soprattutto software) che funzionano all’estero, importandoli, adattandoli e fornendone una versione esclusivamente diretta al mercato interno cinese. Tutto ciò può accadere in virtù del fatto che il mercato cinese è sconfinato, dal punto di vista del numero di utenti e anche per il grado di diffusione e penetrazione delle tecnologie mobile nel Paese.
Altro grande paradosso, la cultura imprenditoriale che ancora oggi rifugge il rischio e ha paura del fallimento, ma allo stesso tempo investe per costruire Innovation Clusters, Parchi Scientifici e Tecnologici e Incubatori di impresa.
Si aggiunge infine la contraddizione tra la tendenza delle famiglie a fare grossi sacrifici per permettere ai propri figli di studiare all’estero (molto spesso proprio in Silicon Valley), salvo inculcargli, al ritorno in patria, l’idea di dover preferire la stabilità del posto fisso, preferibilmente in ambito statale.

Nonostante tutte queste stridenti contraddizioni, però, Steve Blank si dice convinto che la Cina sia una realtà moderna e sorprendente, che attualmente si trova sulla strada per costruire un grande e moderno ecosistema imprenditoriale basato sulla tecnologia e l’innovazione: il suo percorso è iniziato, veloce e inarrestabile, e non si può tornare indietro.

Napoli, 15/04/2013

Differenza tra Big Companies e Startup: il pensiero di Steve Blank

Steve Blank è ad oggi uno dei massimi esperti al mondo in materia di startup: da sempre impegnato nella creazione di nuove imprese, approda nella Silicon Valley nel 1978. Docente universitario, co-autore insieme a bob Dorf del libro The Startup Owner’s Manual, ma soprattutto imprenditore seriale che vuole mettere a disposizione degli aspiranti imprenditori le esperienze e le consapevolezze di una vita nel mondo delle startup.
In questo articolo, analizziamo il pensiero di Blank sulle differenze nell’approccio all’innovazione tra startup e grandi aziende affermate, prendendo spunto dall’intervista pubblicata sul blog di Ron Ashkenas della Harvard Business Review lo scorso febbraio.

Il punto di partenza è la lista delle 50 aziende più innovative al mondo del 2013 pubblicata da Fast Company, nella quale salta subito all’occhio come la grande maggioranza delle posizioni sia ricoperta da grandi nomi dell’innovazione (tra cui Google, Apple e Microsoft) e piccole aziende in fase di startup, mentre sono quasi assenti le grandi aziende già affermate.
Secondo Blank la motivazione della scarsità di investimenti in innovazione da parte delle grandi aziende e, al contrario, la grossa spinta in tal senso delle startup è da ricercarsi in tre ragioni:

– Le aziende affermate hanno la tendenza a perseguire il business model esistente, per assicurarsi che funzioni bene e continui a soddisfare i clienti. Il fulcro dell’attività di una startup, al contrario, è proprio quello di ricercare un business model praticabile che riesca a bilianciare le esigenze della clientela con un’offerta che possa portare un vantaggio competitivo all’azienda. L’innovazione è, secondo Blank, la ricerca che la startup effettua per trasformare la propria idea in un prodotto che il cliente voglia acquistare.

– Tale processo di ricerca della startup è quindi finalizzato ad un business model sostenibile. Ciò significa che la startup non può semplicemente seguire un business plan predefinito, ma deve bilanciare continuamente la necessità di programmare e preordinare la propria attività con una sperimentazione continua di nuovi prodotti, metodi e strategie, per trovare la formula che soddisfi al meglio i propri clienti. Naturalmente si tratta di un processo rischioso, che le grandi aziende già affermate non sempre hanno interesse ad intraprendere, pur avendo sicuramente più risorse per affrontare il rischio di fallimento rispetto alle startup. Secondo Blank la soluzione sarebbe quella in cui le grandi imprese investano in un portafoglio variegato di startup, per garantire l’innovazione e allo stesso tempo ridurre il rischio dei propri investimenti.

– L’ultimo aspetto che Blank mette in risalto riguarda le persone coinvolte nel processo di innovazione: i migliori innovatori sono quelli che non hanno paura del fallimento, che sono disposti ad affrontare i rischi, ma spesso sono anche quelli più ribelli ed insofferenti all’autorità. Questi aspetti rendono gli innovatori difficili da gestire per le grandi aziende, che preferiscono in molti casi affidare le proprie attività a manager meno propensi al rischio e all’innovazione, che svolgono il proprio compito mantenendosi su risultati standard, ma sicuramente più facili da gestire.

In conclusione, secondo Blank la fase di avvio di una startup richiede sicuramente un approccio molto differente da quello tipico di gestione di un’azienda già affermata, e chiunque si affacci al mondo dell’imprenditoria deve tenere in considerazione tali differenze.

Per saperne di più su Steve Blank: http://steveblank.com/

Napoli, 11/04/2013

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