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Consigli per startup B2B: se volete avere successo, scegliete piccole aziende come primi clienti

Thomas Bartman è membro del Forum for Growth and Innovation della Harvard Business School, un think tank che si occupa di studiare le dinamiche dell’innovazione disruptive: il blog della Harvard Business Review ha pubblicato un suo articolo incentrato sui motivi per cui una startup dovrebbe concentrarsi sulla vendita dei propri servizi alle piccole imprese, anziché rivolgersi ai grandi colossi del mercato.

Secondo Bartman è infatti ormai risaputo che le startup B2B rappresentano un segmento fondamentale del panorama imprenditoriale, ma spesso i founder hanno la tendenza, nelle fasi iniziali dell’avvio, a concentrarsi sui clienti sbagliati. L’errore sta nel ritenere che le grandi imprese siano i clienti migliori cui rivolgersi, pensando che inserirle nel proprio portafogli clienti fosse una sorta di “legittimazione” per attirare in futuro nuova clientela.

In realtà questo approccio orientato alle grandi imprese può essere il percorso più difficile per una startup B2B e riduce drasticamente le sue probabilità di successo: Bartman afferma chiaramente che le startup B2B dovrebbero concentrarsi sul segmento di mercato delle piccole imprese.

Il pensiero più diffuso riguardo il target delle piccole imprese è che siano più costose da gestire: questo atteggiamento, secondo l’autore, è miope. Vendere alle piccole imprese è invece un ottimo modo per iniziare un business, che rappresenta una strategia utile per gettare le basi per il futuro di una startup. Una volta acquisite nel portafoglio clienti le imprese di piccole dimensioni, infatti, sarà più facile per la startup proseguire il percorso di crescita e rivolgersi alle imprese più grandi.

Alcuni esempi del successo di questo tipo di strategia sono: Salesforce, che con le sue soluzioni cloud-based è riuscita a ridurre i costi dei database per le imprese; Vistaprint, che ha offerto un servizio disruptive nel mondo delle tipografie, con un servizio web-based di grafica e design caratterizzato da economie di scala e conseguente drastica riduzione dei costi; Stamps.com, che sostituisce costose attrezzature per il mail-processing con applicazioni on-line ad abbonamento mensile.

Un esempio più recente è offerto da HourlyNerd, che si propone di innovare radicalmente il settore delle società di consulenza offrendo agli imprenditori la possibilità di mettersi in contatto con consulenti indipendenti: è proprio analizzando il caso di HourlyNerd che Bartman cerca di spiegare alle startup la migliore strategia per creare aziende B2B disruptive partendo da una clientela di piccole imprese.

Il punto di partenza è che le piccole imprese hanno esigenze simili alle grandi imprese, per cui un modello di business pensato per piccole imprese può essere scalato ed applicato in modo relativamente semplice alle esigenze di medie e grandi imprese.
A ciò si aggiunge il fatto che le piccole imprese hanno un livello di rischio sostanzialmente basso, in quanto sono molto più numerose delle aziende di grandi dimensioni. Per questo motivo, un insuccesso con una piccola impresa non porterebbe a grossi danni reputazionali per una startup.

Inoltre, spesso le piccole imprese non hanno facilmente accesso a prodotti B2B rispetto alle aziende più grandi: per questo motivo, sono alla ricerca di soluzioni offerte da startup anche se con funzionalità ridotte rispetto a quelle pensate per le imprese di maggiori dimensioni. In questo scenario, le startup hanno facile accesso al mercato anche con un minimum viable product, un prototipo da testare e migliorare nel tempo.
Una startup che si rivolge alle piccole imprese può evitare i lunghi cicli di sviluppo pre-lancio per target di mercato più esigenti e iniziare a testare il prodotto con le piccole imprese, anche con disponibilità ridotte di capitale.

Il primo step per questo tipo di strategia aziendale è individuare le opportunità che gli operatori storici del mercato stanno ignorando: bisogna capire quali sono i prodotti troppo costosi o complessi per le piccole imprese, e individuare le possibili soluzioni tecnologiche innovative e a costi relativamente bassi che potrebbero soddisfare il target delle piccole imprese.

Una volta pronto il MVP, la startup può proporla a costi bassi e senza impegno alle piccole imprese: in questa fase è fondamentale lavorare a stretto contatto con i clienti, per accogliere tempestivamente i feedback e capire quali eventuali miglioramenti apportare al prodotto. Uno strumento utile in questa fase sono, ad esempio, le interviste da sottoporre al cliente prima e dopo l’utilizzo del prodotto.

I prodotti offerti devono essere standardizzati in maniera tale da poter incontrare il favore del maggior numero di piccole imprese possibile, lo scopo è quello di avere un offerta che riduca al minimo i costi di modifiche e personalizzazioni. In quest’ottica è utile segmentare la clientela basandosi su criteri relativi alla dimensione, e non alla posizione geografica.
I questo modo sarà possibile studiare soluzioni ad hoc, più semplici o più complesse a seconda delle esigenze dei clienti: la segmentazione va quindi effettuata in termini di benefici offerti, non sulla base di aspetti demografici.

Questo tipo di targeting dei clienti iniziali, inoltre, spesso consente alla startup di non ritrovarsi a competere direttamente con gli operatori che sono già da tempo sul mercato: il segmento di clientela servito, infatti, si discosta da quello di riferimento per i concorrenti “tradizionali”.

Un ultimo aspetto che l’autore considera riguarda infine il continuo miglioramento del prodotto: una startup B2B, attraverso le varie modifiche migliorative apportate al prodotto offerto a imprese di piccole dimensioni, si ritrova ad un certo punto con un prodotto abbastanza evoluto da essere adatto a risolvere le esigenze di grandi aziende. Inoltre, evitando la competizione diretta, i grandi operatori già presenti sul mercato si accorgeranno della nuova startup solo quando quest’ultima sarà abbastanza cresciuta da potersi confrontare con loro.

Naturalmente, conclude Bartman, una strategia di questo tipo non è priva di problematiche e difficoltà (tra cui, ad esempio, la percezione del marchio): ma i risultati ottenuti da startup di successo globale come Salesforce sono la prova che può essere davvero la più consigliata per una startup.

Per leggere l’articolo originale dal sito di HBR: https://hbr.org/2015/01/start-ups-should-sell-to-small-businesses-not-big-enterprises

Napoli, 29/01/2015

Corporate Social Responsibility e Startup: in che modo le iniziative a scopo sociale possono guidare una nuova azienda al successo

In un post recentemente pubblicato da Entrepreneur, Alicia Lawrence affronta il tema della Corporate Social Responsibility per le startup: in particolare, l’autrice sostiene che le startup possono trarre grossi vantaggi in termini di crescita e di successo svolgendo la propria attività di business nel rispetto della responsabilità sociale.

Negli ultimi dieci anni, infatti, ci sono molte storie di successo di startup che sono partite con pochi soldi in tasca, un’idea e la volontà di fare del bene: il loro successo, secondo Alicia Lawrence, insegna che una startup dovrebbe seguire una triplice linea di fondo definita “Le 3 P”: persone, pianeta e profitto (people, planet, profits).

La responsabilità sociale, per una startup, è impegnare soldi, tempo e risorse per scopi sociali e per la sostenibilità: anche Michael Porter, docente della Harvard Business School, ha scritto in un suo articolo del 2011 che “le imprese devono saper connettere il successo aziendale al progresso sociale. Ciò che conta non è il margine, ma ciò che le aziende effettivamente fanno“.

Un Business Model che tenga conto di questi aspetti, secondo l’autrice del post, è il futuro delle aziende di successo: ma vediamo in che modo e quali sono le esperienze reali che dimostrano quanto la responsabilità sociale sia strettamente connessa al successo di una startup.

1) La responsabilità sociale permette alle startup di connettersi ai clienti a livello più profondo, e di sviluppare relazioni più salde con i fornitori. Ciò accade quando le iniziative sociali vengono integrate ai valori aziendali: partecipare al benessere sociale nella propria comunità di riferimento può far nascere nuove opportunità di business.

Le iniziative sociali possono avere un impatto significativo sui potenziali guadagni derivanti dalle vendite di un prodotto: secondo uno studio effettuato da Havas, infatti, il 53% dei consumatori intervistati sarebbe disposto a pagare il 10% in più per i prodotti di aziende che utilizzano parte dei profitti per dare un contributo al benessere sociale.

Un esempio di startup di successo impegnata nella Social Responsibility è Meditek, che si occupa di vendita di apparecchiature mediche negli ospedali: grazie alle iniziative sociali e ai programmi di donazione a fondazioni umanitarie internazionali, Meditek è riuscita a legare il suo brand ad un’immagine positiva aumentando così la fedeltà dei clienti al marchio.

2) Coinvolgere la startup in iniziative filantropiche serve ad attrarre e trattenere i dipendenti: questo perché tutti noi vorremmo fare qualcosa di importante nella nostra vita. Questo è il motivo per cui le aziende che applicano la filosofia delle 3P riescono a inorgoglire e motivare i dipendenti, creando coesione tra il team e rendendolo, in ultima analisi, maggiormente produttivo.

Un esempio è Salesforce, startup di successo e leader mondiale nel CRM e nel cloud computing, con il suo modello filantropico 1-1-1: la Salesforce Foundation dedica l’1% del tempo, l’1% dei prodotti e l’1% del capitale per migliorare la comunità all’interno della quale i suoi dipendenti vivono e lavorano. I lavoratori di Salesforce hanno anche disposizione 6 giorni liberi ogni anno per svolgere attività di volontariato a loro scelta.

3) La responsabilità sociale migliora la reputazione di una startup. Spesso, una startup agli inizi della propria attività deve investire tempo e risorse per costruire la fiducia nel brand e ottenere i primi clienti: da questo punto di vista, la responsabilità sociale aiuta ad ottenere un vantaggio competitivo.

In quest’ambito è d’esempio l’esperienza di WebpageFX, una startup di successo nel campo dell’Internet marketing, che ha utilizzato le iniziative sociali come base per costruire la fiducia dei potenziali clienti. La startup ha infatti attuato il programma #FXBuilds, che prevede una donazione di denaro per costruire una scuola in un paese in via di sviluppo ogni volta che i dipendenti raggiungono un obiettivo.

Come afferma Trevin Shirey (WebpageFX), “Restituire ed essere generosi è un ottimo modo per costruire la fiducia”: ai clienti, infatti, piace vedere che dietro al brand di una startup ci sono persone reali che lavorano e che si preoccupano anche degli altri. In questo senso, la Social Responsibility è un potente strumento per costruire relazioni durature con i clienti.

Il post originale è disponibile a questo link: http://www.entrepreneur.com/article/235294

Napoli, 05/08/2014

Consigli per startup e imprese in tema di team management: come gestire correttamente il feedback per i componenti del team?

In un recente post pubblicato dal Blog Network della Harvard Business Review, la giornalista freeleance Rebecca Knight (The New York Times, USA Today, The Financial Times, The Economist) affronta un argomento di grande rilevanza per i founder di una startup, che si ritrovano a dover gestire un team e a capire come fornire ai componenti dei feedback in maniera costruttiva ed efficace.

Secondo gli esperti, fornire un feedback non è responsabilità esclusiva del team leader: prima di tutto, perché non è possibile che un’unica persona abbia la responsabilità di tutto ciò che accade all’interno di una startup e in generale di un’azienda, visto che difficilmente è possibile avere un quadro chiaro e dettagliato di tutto ciò che accade. Inoltre, se c’è una sola persona a lodare o criticare le dinamiche interne del team ne risentono.

Il compito di chi gestisce un team è innanzitutto quello di garantire che tutti i componenti forniscano regolamente dei feedback costruttivi. Inoltre, gli esperti sostengono che è fondamentale fornire al team delle aspettative: un elemento basilare per una responsabilità di leadership condivisa.

Il primo consiglio dell’autrice è quindi quello di impostare prima possibile le aspettative: per lavorare bene insieme, infatti, i componenti di un team devono operare sulla base di una mentalità comune, avere ben chiari i propri obiettivi e le regole da seguire. Nelle prime fasi di vita di una startup, il team deve decidere come lavorare insieme e, soprattutto, come gestiranno la responsabilità reciproca: è opportuno avere un accordo esplicito sull’argomento, con le regole da rispettare per far funzionare al meglio l’intera squadra.

Un altro suggerimento è quello che prevede dei regolari momenti dedicati al check-in, ossia degli incontri durante i quali il team può fare il punto della situazione sull’andamento del lavoro. In generale, all’inizio una startup dovrebbe prevedere tali appuntamenti in maniera strutturata, inserendoli nella timeline del progetto: in seguito, durante la fase di execution, è possibile approcciarsi ai check-in con maggiore flessibilità.

Ancora, per dare e ricevere feedback in maniera efficace è importante porre delle domande generali, da rivolgere all’intero team. Con il passare del tempo, poi, sarà possibile inserire dei momenti di approfondimento individuali: una volta che il team è abituato a confrontarsi regolarmente, a lavorare in squadra e a condividere le risposte, è possibile affiancare delle richieste di feedback sul lavoro di squadra ai singoli componenti del team.

Altro aspetto da tener presente è quello che l’autrice del post definisce un vero e proprio mantra del team management: mentre per le relazioni con i singoli vale la regola “Lodare pubblicamente, criticare in privato”, quando si tratta di gestire situazioni problematiche a livello di team il consiglio è quello di affrontare le difficoltà apertamente, in un confronto aperto a tutti i componenti. Solo dopo aver fatto confrontare il team al completo, sarà possibile rivolgersi ai singoli componenti ponendo domande come: “Cosa hai sentito durante l’incontro con il team? Come hai intenzione di cambiare la situazione? In che modo posso aiutarti a farlo?”.

Naturalmente, in una startup (come in un’azienda di qualsiasi tipo) i conflitti tra colleghi sono inevitabili: chi gestisce il team però non può affrontare il problema direttamente, non essendovi realmente coinvolto. Ciò che è possibile fare quando si gestisce una startup è formare i membri del team a sostenere conversazioni scomode, affrontare eventuali problemi, facilitare la risoluzione di conflitti. Inoltre, è importante aiutare i membri del team a costruire la fiducia tra loro: un buon lavoro è possibile soltanto se tra le persone coinvolte esistono buoni rapporti, basati sul confronto aperto.

Infine, l’ultimo suggerimento di Rebecca Knight è quello di pianificare al termine di ogni progetto un incontro per fare il check-in della situazione: si tratta di un momento fondamentale per capire cosa ha funzionato e cosa non ha funzionato, e di conseguenza capire come affrontare al meglio il lavoro in futuro. E’ importante che i risultati siano raccolti in una relazione finale, che non dovrà essere esclusivamente per chi detiene la leadership: anzi, è fondamentale che tale relazione venga sottoposta a tutti i membri del team, per dare a tutti l’opportunità di migliorare in vista dei progetti futuri.

L’articolo originale da cui è tratto questo post (che termina con l’esposizione di due interessanti Case Study sul tema) è disponibile al seguente link: http://blogs.hbr.org/2014/06/how-to-give-your-team-feedback/

Napoli, 19/06/2014

Strategia, vantaggio competitivo e collaborazione: come è cambiata la situazione del mercato per imprese e startup

Nel suo ultimo post pubblicato dal blog della Harvard Business Review, Greg Satell (esperto di strategia e innovazione nel digitale) ha affrontato il tema della strategia e del vantaggio competitivo, mettendo in luce le evoluzioni che hanno profondamente trasformato il mercato globale. Si tratta di argomenti di interesse fondamentale per le imprese e in particolare per le startup, che sono alle prese con le prime fasi di pianificazione delle proprie attività.

Secondo Satell, non ha più senso guardare alla strategia come “una lunga partita a scacchi”, nella quale i giocatori conoscono la posizione e le capacità di ogni singolo pezzo e sono in grado di pianificare le mosse con largo anticipo: le aziende, oggi, non hanno più confini settoriali ben definiti, le minacce competitive e le opportunità di trasformazione si sono moltiplicate e possono provenire da qualsiasi parte.

La strategia, quindi, non è più una sequenza ordinata di “mosse” prestabilite, ma va pensata in termini di processo di apprendimento e di ampliamento delle connessioni.
Per spiegare meglio le sue convinzioni, l’autore parte dal pensiero di Ronald Coase, che ha vinto il Premio Nobel per l’economia del 1991 “per la scoperta e la spiegazione dell’importanza che i costi di transazione e i diritti di proprietà hanno nella struttura istituzionale e del funzionamento dell’economia”.

In un articolo pioneristico del 1937, Coase ha parlato per la prima volta di come le imprese possono guadagnare in termini di competitività riducendo i costi di transazione, in particolare quelli relativi al trasferimento di informazioni. A suo parere, le imprese possono continuare a crescere fino al punto in cui i costi organizzativi andavano ad annullarsi con i benefici derivanti dalle transazioni.

Nel 1980, Michael Porter ha ripreso quest’idea costruendo su essa il suo concetto di catena del valore, offrendo ai manager uno strumento per la costruzione del vantaggio competitivo. Attraverso una crescita basata sul concetto di scalabilità, le imprese potevano creare efficienza lungo la catena del valore attraverso l’eccellenza operativa o il potere contrattuale con clienti e fornitori. Inoltre, la scalabilità consente di ridurre i costi, in particolare quelli di transazione.

Le teorie di Coase e Porter sono però riferite ad un mercato relativamente stabile, in cui i costi di transazione sono paragonabili a delle erbacce che i manager possono semplicemente sradicare. In una situazione del genere, una volta pianificate le attività necessarie a fronteggiare la concorrenza, la strategia diventa semplicemente una conseguenza in cui fronteggiare i punti di debolezza facendo leva sui punti di forza: il vantaggio competitivo nasce infatti dalla somma di tutte le efficienze, costruite su un percorso basato sulla scalabilità.

Ma, come fa notare Satell, il mercato attuale non è stabile: si tratta di un sistema in continua ed accelerata evoluzione, in cui non è più possibile pianificare una strategia seguendo queste premesse teoriche. I cambiamenti possono essere così repentini da rendere possibile soltanto un’attività di preparazione, che deve rendere l’azienda flessibile e pronta a cambiare rotta di fronte ad eventuali nuovi assetti del mercato: si tratta quindi di passare dal concetto di “imparare a pianificare” a quello di “pianificare di imparare” (concetto espresso da Rita Gunther McGrath della Columbia University).

Ciò vuol dire che l’impresa deve pianificare la propria strategia come una vera e propria strategia di apprendimento, che deve rendere il team capace di osservare il mercato e le sue evoluzioni, capire cosa succede e imparare immediatamente a fronteggiare le situazioni che si propongono.

Per esemplificare questo concetto, Satell ricorre ad una best practice del settore: Amazon. Quando Jeff Bezos ha iniziato la sua attività con Amazon, lo scopo era quello di vendere libri in un mercato in cui dovevano fronteggiare concorrenti tradizionali come Barnes & Noble. Ma oggi, Amazon è molto più di un semplice rivenditore di libri: offre servizi di cloud computing alle imprese, sviluppa hardware, produce programmi TV. I suoi concorrenti diretti oggi sono aziende appartenenti a settori differenti, come Microsoft, Walmart e Netflix.

Satell fa notare come Amazon non sia un conglomerato di divisioni aziendali appartenenti a settori differenti: è una piattaforma, con una architettura cloud che gestisce l’attività di e-commerce e che è la stessa offerta come servizio alle imprese e come distributore di intrattenimento per i consumatori. Nel momento in cui Amazon espande la propria attività in altri settori, approfondisce ed amplifica le skills all’interno del team. Ecco perché, secondo Satell, per un’azienda come Amazon non ha senso parlare di posizionamento nel settore: guardando il panorama competitivo di Amazon occorre esaminare il suo ecosistema di riferimento.

Tornando all’articolo che Coase scrisse nel 1937, è chiaro che oggi i costi di transazione non rappresentano più il fardello più pesante per un’impresa: le risorse più importanti per le aziende di oggi non sono legate ad un luogo fisico, non diminuiscono sostanzialmente con l’utilizzo, e sono facilmente distribuibili. Il mondo economico è cambiato, e altrettanto è cambiata la strategia.

Molti hanno cercato di capire cosa significa tale cambiamento per le aziende di oggi: Rita Gunther McGrath, ad esempio, sostiene (nel suo libro “The End of Competitive Advantage”) che non è più possibile ottenere un vantaggio competitivo sostenibile e che oggi bisogna accontentarsi di un vantaggio competitivo transitorio. A suo parere, piuttosto che concentrarsi su una serie di funzionalità ben definite, le imprese dovrebbero guardarsi costantemente intorno alla ricerca di occasioni per aumentare il proprio successo.

Satell però sostiene che le idee espresse in “The End of Competitive Advantage” siano condivisibili solo in parte: a suo parere, esistono esempi di aziende come la stessa Amazon o Apple che hanno dimostrato di essere in grado non solo di mantenere il vantaggio competitivo nel tempo, ma di approfondirlo e aumentarlo migliorando il proprio core business.

Ciò che è cambiato secondo Satell, infatti, è che il vantaggio competitivo non è più semplicemente la somma di tutte le efficienze: il vantaggio competitivo, nel mercato attuale, è rappresentato dalla somma di tutte le connessioni. La strategia, quindi, deve focalizzarsi sull’approfondire ed ampliare i network di informazione, il talento, le competenze, le relazioni con i partner strategici e con i consumatori. Lo stesso brand non è più un’attività da sfruttare: ciò che conta oggi per aziende, imprese e startup è la capacità di costruire piattaforme di collaborazione.

L’articolo originale da cui è tratto questo post è disponibile a questo link: http://blogs.hbr.org/2014/05/strategy-is-no-longer-a-game-of-chess/

Napoli, 03/06/2014

Consigli per startup e imprese: l’importanza del pensiero strategico nel processo decisionale aziendale

Nick Tasler è CEO di Decision Pulse e creatore del sistema di apprendimento integrato “Think Strategically & Act Decisively”, utilizzato, tra gli altri, da aziende del calibro di Microsoft e dalla Royal Bank of Canada. Di recente il Blog della Harvard Business Review ha pubblicato un suo post dedicato al tema della Pianificazione Strategica e ad alcuni “falsi miti” che ostacolano tale attività fondamentale per startup e imprese di ogni settore.

Tasler parte da quella che definisce la forma più semplice di pensiero strategico: decidere su quali opportunità concentrare il proprio tempo, risorse e denaro e quali opportunità lasciar perdere. Per spiegare meglio ciò che si intende per pensiero strategico, cita Napoleone Bonaparte (che definisce uno dei più grandi pensatori strategici della storia), secondo il quale “Per concentrare al massimo le forze in un luogo, bisogna economizzare le forze negli altri“. Per descrivere lo stesso concetto, Michael Porter afferma invece che “L’essenza della strategia è decidere cosa non fare“.

Passando ad un livello successivo, più vicino alla pianificazione strategica aziendale, il pensiero strategico può riguardare varie tipologie di scelte: Tasler elenca, a titolo di esempio, la possibilità di liquidare una società per acquistarne un’altra, o la decisione di concentrare la maggior parte delle risorse in un unico settore chiave. In ogni caso, esistono tre falsi miti che possono incidere negativamente sulla pianificazione strategica, che l’autore mette in evidenza nel suo post:

1) La produttività è l’obiettivo

La produttività riguarda il “fare” qualcosa. Il pensiero strategico riguarda il fare “la cosa giusta nel modo giusto“. Corollario di queste affermazioni è che la strategia richiede di lasciar perdere alcune cose, suscitando delle emozioni e reazioni spiacevoli. Quando si lasciano dei progetti a metà o si decide di non iniziarli affatto viene a mancare quella sensazione di fiducia e di controllo che deriva dal perseguire un obiettivo concreto: ma nel gestire un’azienda occorre combattere questo fenomeno psicologico universale di “avversione al lasciar perdere” che deriva dal dover abbandonare un progetto nel quale si è investito tempo e denaro. Tasler mette in guardia gli imprenditori: è possibile che ci si trovi a dover affrontare la reazione negativa del team, nel momento in cui gli si comunica che uno dei loro progetti o l’intero reparto è stato “retrocesso” in favore di altri progetti più “preziosi”.

Di fronte a tali difficoltà, si può essere tentati di perseguire l’obiettivo della produttività: ma concentrarsi sul volume di produzione non è la stessa cosa di concentrarsi sul perseguimento dell’eccellenza. Secondo Tasler, infatti, “senza una strategia, la produttività è priva di significato“. Il passo fondamentale da cui partire è capire quali siano le “cose giuste” su cui concentrarsi.

2) Il lavoro del leader è identificare “che cosa è importante”

L’autore propone un semplice e rapido esercizio: stilare una lista di tutti i progetti, le attività e le iniziative cui il team sta lavorando e tracciare una linea su tutte le voci che non sono importanti.
Il 99% dei team non barrerà nessuna voce in elenco: ogni progetto cui il team sta lavorando è importante per qualcuno dei componenti, ogni voce elencata ha il proprio “valore aggiunto” per l’azienda. Questo dimostra che discutere su ciò che è importante è un’attività futile: i pensatori strategici devono decidere su quali progetti e attività focalizzarsi, non semplicemente quali sono le cose importanti. Anzi, Tasler afferma che il vero leader strategico è colui che, tra una serie di opportunità importanti, sceglie su quali focalizzarsi e quali, invece, lasciar perdere.

Mentre i team con focus sulla produttività spendono ore e ore, anche di straordinario, per portare a compimento un progetto importante dopo l’altro, i team strategici scelgono quali sono i progetti che maggiormente contribuiscono a realizzare la strategia aziendale, mettendo in attesa gli altri progetti importanti.

3) Il pensiero strategico è semplicemente “pensare”

La leadership strategica non è un problema matematico né un esperimento di pensiero. In ultima analisi, il pensiero strategico deve portare all’azione strategica. Un’accurata analisi costi/benefici, le previsioni, i fogli di calcolo, lo studio dei trend sono del tutto inutili se non sfociano in una decisione attuabile. Nonostante le incertezze, le complessità, i rischi, la possibilità di fallimento un vero leader strategico deve intensificare e far lavorare il team e le risorse comunicando chiaramente su cosa concentrarsi e su cosa no.

L’autore chiude il suo post riprendendo nuovamente il pensiero di Napoleone: “Non c’è nulla di più difficile, e quindi di più importante, dell’essere capaci di decidere“. Probabilmente è questa la caratteristica più importante che un imprenditore deve possedere per detenere posizioni di leadership.

Il post originale è disponibile al seguente link: http://blogs.hbr.org/2014/05/3-myths-that-kill-strategic-planning/

Napoli, 22/05/2014

Innovazione di prodotto/servizio e “live prototyping”: consigli utili a startup e imprese per proteggere il brand negli esperimenti di mercato

David Aycan, dopo aver co-fondato e gestito due startup di successo, è attualmente Design Director a IDEO, dove collabora con startup e grandi aziende per le attività di progettazione di nuove offerte e business model.
Paolo Lorenzoni lavora al Product Development di Food Genius, azienda che fornisce big data all’industria alimentare ed esperto nella guida di team multidisciplinari per nuove iniziative e progetti nei settori food, tecnologie e retail.

Insieme hanno pubblicato di recente un contributo per il Blog Network di Harvard Business Review, dedicato al tema “Prototype Your Product, Protect Your Brand”: lo spunto nasce dalla crescente diffusione, tra startup e imprese già consolidate, delle attività di “live prototyping”.
Si tratta di lanciare sul mercato reale prodotti non finiti per testarli in reali situazioni di contatto con i clienti, per evitare di investire ingenti risorse su idee di prodotto sbagliate, o comunque che non incontreranno il favore del mercato. Un concetto molto diffuso nel mondo delle startup, assimilabile al MVP di Steve Blank e della metodologia Lean Startup.

La domanda che si pongono Aycan e Lorenzoni è se un’attività del genere possa avere ripercussioni negative: sull’immagine dell’azienda, sul brand, o in termini di “svelamento” delle strategie alla concorrenza. Si tratta, secondo gli autori, di dubbi sicuramente leciti, ma allo stesso tempo assicurano gli imprenditori e aspiranti tali della possibilità di gestire la live prototyping e gli esperimenti di mercato in modo tale da non mettere a rischio i rapporti con i clienti.

Quando si decide di mettere in pratica un esperimento di mercato che coinvolga i clienti per valutare il prototipo di un nuovo prodotto, è importante valutare una serie di aspetti. Nel loro post, Aycan e Lorenzoni elencano i seguenti:

Valutare la Brand History: l’azienda ha già fatto esperimenti di mercato in passato? Come hanno reagito i clienti? I vostri clienti più affezionati hanno apprezzato la vostra inventiva? Bisogna sempre domandarsi se è il caso o meno di innovare il prodotto: un marchio “storico” come Levi’s, ad esempio, ha dei clienti strettamente legati al “classico” e potrebbero non apprezzare eventuali modifiche.

Valutare i Benchmarks competitivi: bisogna fissare il livello minimo di qualità del prodotto (floor). La domanda da porsi è: la qualità rappresenta un aspetto essenziale e imprescindibile oppure no? Tale valutazione è strettamente connessa al settore di attività: ad esempio, un’azienda automobilistica non può mantenere standard qualitativi bassi.

Valutare i concorrenti: Aycan e Lorenzoni mettono in evidenza un punto fondamentale a riguardo. Guardare esclusivamente i concorrenti diretti potrebbe essere fuorviante, bisogna osservare i settori simili e i prodotti sostitutivi: se si lavora in un settore strettamente regolamentato, ad esempio, occorre guardare anche al settore sanitario o della finanza, dove la prototipazione deve seguire normative ben precise.

“Prototype prototyping”: più semplicemente, gli autori si riferiscono alla possibilità di parlare ai clienti della prototipazione prima di lanciare un prototipo. Anzichè limitarsi a lanciare il prototipo sul mercato, si può chiedere ai clienti di immaginare come reagirebbero di fronte a tali prototipi senza sapere che non si tratta di prodotti finiti. Può essere utile domandare se sarebbero entusiasti di provare cose nuove, ed identificare un gruppo di clienti cui sottoporre il test di prodotto per valutare eventuali modifiche e miglioramenti.

Una volta comprese quali siano le aspettative iniziali del cliente, è possibile passare alla pianificazione dell’esperimento: naturalmente, il modo più efficace per ridurre il rischio è quello di investire soltanto quando si sarà raggiunto un livello di qualità sufficientemente alto. Ma anche in questo caso, è fondamentale investire risorse in ciò che va incontro alle necessità ed aspettative del cliente, per assicurarsi di migliorare il livello di qualità mantenendosi in linea con le richieste e i bisogni della clientela.

Un altro approccio utile per ridurre il rischio è quello di contenere l’esperimento ad alcuni momenti specifici della customer experience: è utile concentrarsi inizialmente solo sugli aspetti che mettono in risalto i rischi aziendali più elevati, riducendo il tempo di interazione dei clienti con il prototipo. Ad esempio, per testare il nuovo packaging non è necessario sottoporre il prodotto al cliente: basta mostrargli la nuova confezione esterna senza offrire la possibilità dell’intera esperienza di acquisto e consumo del prodotto.

Un’ulteriore strategia utile per contenere il rischio dell’esperimento è quella di calibrare l’esposizione del prototipo, sperimentandolo con una piccola fetta di potenziali clienti. In questo modo, è possibile osare un po’ di più nelle proposte innovative, senza rischiare nei confronti dell’intero bacino di clienti e misurando l’impatto del cambiamento su un gruppo limitato.

Infine, se nonostante questi accorgimenti l’esperimento di lancio di un prototipo dovesse incontrare ancora difficoltà, Aycan e Lorenzoni suggeriscono una strategia basata sulla trasparenza: si tratta di far sapere ai clienti coinvolti nel test che stanno sperimentando un prototipo non ancora lanciato sul mercato. Per farlo, è opportuno creare un sub-brand con lo scopo di introdurre nuovi prodotti, idee e prototipi ancora incompiuti per testarli.
Si tratta dell’approccio utilizzato da Google con Google Labs, il sub-brand che il colosso americano dedica alla creazione di nuovi prodotti rivoluzionari tra cui i Google Glass.

In quest’ultimo caso è utile offrire al cliente la possibilità di tornare al prodotto/servizio originale in caso di problemi con il prototipo: in questo modo è possibile ottenere dai clienti informazioni e feedback utili per i miglioramenti da apportare al prototipo.

In ogni caso, concludono Aycan e Lorenzoni, anche se le attività di “live prototyping” sembrano difficili da implementare sono sicuramente meno rischiose rispetto a lanciare un prodotto o un servizio difettoso: soprattutto in un mercato come quello attuale, che si muove veloce e in cui tutte le aziende cercano di innovare più rapidamente possibile per non ritrovarsi con un business obsoleto.

Il post originale è disponibile al seguente link: http://blogs.hbr.org/2014/04/prototype-your-product-protect-your-brand/

Napoli, 16/04/2014

Consigli alle startup: gestire il personale secondo il principio “Hire Slow, Fire Fast”

Greg McKeown è Young Global Leader per il World Economic Forum, esperto consulente d’impresa in Silicon Valley e autore del libro “Essentialism: The Disciplined Pursuit of Less”: il suo più recente contributo pubblicato dal blog della Harvard Business Review riguarda il tema delle assunzioni e dei licenziamenti in una startup.

Molte startup, infatti, a causa dei ritmi elevati di crescita tipici delle prime fasi di vita dell’impresa tendono ad assumere personale molto velocemente per poter far fronte al carico di lavoro e poter ricoprire al più presto i ruoli scoperti nel team, ma sono poi molto lente a licenziare gli impiegati che si rivelano non all’altezza della posizione da ricoprire: questo accade, secondo McKeown, perché spesso i founders della startup sono molto impegnati a far decollare il progetto, o ancora perché preferiscono rimandare questo tipo di situazione (a volte anche per inesperienza).

L’autore spiega come questa tendenza abbia portato alcun startup in Silicon Valley a passare da un periodo di crescita incontrollata ad una di numerosi licenziamenti: il paragone utilizzato è quello di un intervento chirurgico a cuore aperto. Anziché indirizzare i propri sforzi quotidiani sul mantenere una squadra “lean” e di alto valore per l’impresa, i founders della startup attendono finché le arterie dell’organizzazione sono ormai bloccate e qualsiasi sistema diventa insufficiente a risolvere il problema: l’unica possibilità diventa a quel punto un intervento chirurgico correttivo.

McKeown racconta poi di una sua recente esperienza come consulente in un’azienda con circa 700 dipendenti e oltre un miliardo di dollari di fatturato annuo: il CEO e gli executives volevano scalare il proprio business, continuando però a mantenere il vantaggio competitivo derivante da una squadra “lean” e con un grande spirito imprenditoriale.
McKeown ha provato subito a introdurre la sua idea di “Assumere lentamente, licenziare in fretta” ma, con sua grande sorpresa, il CEO gli ha subito fatto presente che era proprio quella la filosofia sulla quale aveva basato le proprie decisioni nei dieci anni di vita della sua impresa.

Anche se, a detta dello stesso autore, il principio “Assumere lentamente, licenziare in fretta” può sembrare insensibile nell’attuale contesto economico, caratterizzato da alti livelli di disoccupazione giovanile, il post elenca tre motivi per cui in realtà tale principio funziona:

1) Innanzitutto, non è utile né produttivo creare grosse imprese piene di lungaggini burocratiche: questo tipo di imprese sono destinate a morire lentamente. Occorre invece creare aziende snelle, che possano essere in grado di crescere ed essere competitive nel lungo periodo.

2) Non è giusto né compassionevole mantenere nel team una persona non adatta a quel lavoro, anche perché tutta la squadra non la vedrà di buon occhio. Ciò che serve per far funzionare un’azienda e per svolgere il lavoro ad alti livelli è invece un team nel quale tutti possono fidarsi l’uno dell’altro.

3) Forzare qualcuno a fare un lavoro per il quale non è adatto non è sostenibile né eticamente corretto: è deleterio trattenere le persone nel posto che per loro è sbagliato, esponendoli a feedback negativi per settimane, per mesi. Naturalmente, prima di pensare al licenziamento, è buona regola valutare la possibilità di una riassegnazione all’interno dell’azienda: a volte basta semplicemente trovare il ruolo giusto.

Ma come funziona il processo di selezione che si basa sul principio “Assumere lentamente, licenziare in fretta”?
Innazitutto, McKeown spiega che bisogna gestire le assunzioni con una procedura altamente selettiva: è importante prevedere più colloqui ed, eventualmente, un breve periodo di prova. Bisogna sempre tener presente che l’eventuale assunzione deve essere giusta sia per il datore di lavoro che per il lavoratore.

Altro aspetto utile, quello di prevedere criteri di valutazione il più possibile selettivi: anche se questo significa che ben pochi riusciranno a superare le selezioni per la vostra startup. In questo modo, potremmo essere sicuri di assumere personale veramente adatto a lavorare nel nostro team.

Infine, McKeown offre qualche consiglio su come affrontare il momento di licenziare un dipendente: è possibile, infatti, far sì che questo momento non sia umiliante per le persone che hanno lavorato con noi.

L’autore del post spiega questo punto partendo dall’esperienza di un imprenditore della Silicon Valley che, resosi conto di aver sbagliato ad assumere un dipendente, ha cercato di nascondere il proprio errore con un round di feedback negativi ed elaborando un piano di miglioramento delle prestazioni difficile da mettere in pratica. Purtroppo, il problema non era risolvibile in quanto il dipendente in questione aveva un carattere aggressivo e poco incline ad amalgamarsi con il team.

Nel giro di due settimane era chiaro l’effetto negativo sull’intera squadra di lavoro: l’unica soluzione è stata quella di affrontare in maniera chiara, diretta ed esplicita il dipendente spiegandogli come, nonostante le sue grandi capacità e il suo talento, fosse inadatto a quel lavoro. La società ha inoltre offerto una consulenza gratuita per aiutare la persona a trovare una nuova occupazione: in questo modo, il problema è stato affrontato con successo, il team ha ritrovato il proprio equilibrio e il dipendente licenziato ha lasciato l’azienda senza ripercussioni negative.

In conclusione, McKeown afferma che gestire il personale nel rispetto del principio “Assumere lentamente, licenziare in fretta” è sicuramente difficile, occorrono grandi capacità di leadership, ma è la modalità vincente per far crescere il business.

Il post originale è disponibile a questo link: http://blogs.hbr.org/2014/03/hire-slow-fire-fast/

Napoli, 06/03/2014

La co-opetition: quando la collaborazione con i concorrenti può generare un vantaggio competitivo

Marquis Cabrera è il fondatore e presidente di Foster Skills, un’Organizzazione no profit americana che si occupa di accrescere le life skills dei minori in stato di affido attraverso attività di formazione e mentorship. In passato ha lavorato nel settore dell’Innovation per Wefunder, Wayfair e alla Casa Bianca. Il blog della Harvard Business Review ha pubblicato un suo recente contributo su un tema interessante per aziende innovative e tecnologiche: la “Co-opetition”.

La co-opetiton è una forma di cooperazione tra aziende concorrenti, particolarmente fruttuosa per aziende innovative, che si differenzia per alcuni aspetti sostanziali dai tradizionali accordi di cooperazione: in apertura del suo post, Cabrera spiega infatti che spesso le cooperazioni tradizionali, anche in caso di aziende con business di profilo elevato, falliscono. Ciò accade perchè le parti interessate partono dalla condizione di fondo che il successo di una debba andare a discapito dell’altra, e questo tipo di situazione è chiaramente un gioco a somma zero (una situazione nella quale la contrapposizione tra le parti è totale, e la vincita dell’una corrisponde alla perdita dell’altra).

Al contrario, la co-opetition rappresenta un tipo di collaborazione in cui due aziende concorrenti uniscono le proprie forze sulla base di una parziale congruenza di interessi: come affermato dai professori di management Adam M. Brandbenburger e Barry J. Nalebuff nel libro “Co-Opetiton”, quando due business agiscono basandosi su questo tipo di presupposti hanno la possibilità di diventare più competitivi cooperando.

La co-opetition si basa sul tener conto sia dell’interesse della propria azienda, che di quello dell’altra azienda coinvolta: c’è quindi trasparenza sulle motivazioni, gli obiettivi e le future mosse di entrambe le aziende. Mentre nella collaborazione tradizionale la domanda che ci si pone è “come possiamo collaborare, in modo tale che il risultato sia 1+1=2 ?”, nella co-opetition non ci si chiede quale sarà il mio risultato e quale il risultato dell’altro, bensì ci si interroga su come si possa fare in modo che “1+1=3”.

Alla base della co-opetition c’è la consapevolezza tra le due aziende di essere in concorrenza tra loro: grazie a questo punto di partenza, gli accordi riescono a prosperare e il risultato è che entrambe le aziende riescono a diventare più competitive cooperando. Ciò accade perchè, a differenza delle collaborazioni tradizionali, nella co-opetition le aziende non fingono di non essere in competizione, ma sfruttano reciprocamente la forza del proprio concorrente per prosperare insieme.

Cabrera dimostra come sia possibile arrivare a questo risultato partendo da un esempio concreto: la co-operation tra LinkedIn e i reclutatori professionisti (i cosiddetti “cacciatori di teste”). Il co-fondatore di LinkedIn Reid Hoffman, in un’intervista al New York Times, ha spiegato questa collaborazione apparentemente contraddittoria nel modo seguente: “Non si può avere successo da soli. L’unica strada per ottenere qualcosa di grande è lavorare con altre persone. Ci sono moltissime co-opetition possibili”.

Permettere ai reclutatori di utilizzare LinkedIn per trovare potenziali candidati e opportunità di lavoro consente infatti di ottenere risultati maggiori rispetto ad agire separatamente sul mercato. La domanda che Cabrera si pone a questo punto è “come si fa a proteggere i propri interessi e al contempo a collaborare con i propri concorrenti, ottenendo come risultato la creazione del massimo valore?”. Ci sono essenzialmente tre punti da tenere in considerazione:

1. Accettare di condividere le informazioni

Condividere informazioni e competenze è un ottimo modo per costruire la fiducia con i concorrenti. L’esempio segnalato da Cabrera è il Memorandum of Understanding (MOU), una partnership non vincolante dal punto di vista giuridico, stipulata tra Ford e Toyota che potrebbe evolversi in una joint venture per lo sviluppo di un autocarro leggero ibrido: si tratta di una co-operation che sta procedendo con calma, perché anche in questo tipo di accordo, come in tutti i rapporti, con il passare del tempo la fiducia cresce e si è disposti a condividere di più. Naturalmente, per una co-opetition valida, è fondamentale che la condivisione sia vantaggiosa per entrambe le parti.

2. Concentrarsi sulla costruzione di qualcosa di nuovo

La co-opetition funziona particolarmente bene con aziende che lavorano sulla tecnologia e l’innovazione, perché per questo tipo di business le spese in R&S sono particolarmente ingenti. Un esempio è la collaborazione tra American Airlines e Boeing: se queste due aziende non avessero unito le forze, non avrebbero avuto le risorse finanziarie e la manodopera per ristrutturare e costruire i nuovi aerei nel progetto “76 Next Generation 737s”.
Quando ci si trova a dover lavorare ad un progetto particolarmente costoso, soprattutto nel settore della tecnologia e dei servizi, secondo Cabrera la strada da percorrere è quella di presentarsi al proprio concorrente e dire: “Entrambi vogliamo raggiungere il risultato X, ma abbiamo risorse limitate. Tuttavia, la tua azienda è particolarmente brava a fare A, la mia eccelle nel fare B. Se riusciamo a unire le forze e ad impiegare nel progetto risorse AB, anzichè ottenere un risultato X, potremmo ottenere 2X“.

3. Scegliere una partnership nella quale ciascuno porterà al tavolo qualcosa di diverso

Un accordo tra società simili, ma non troppo simili è il modo migliore per creare relazioni win-win: ad esempio, la partnership tra Wayfair (multinazionale americana nel settore dell’e-commerce) e Amazon ha consentito alla prima di sfruttare un marchio noto a livello globale per aumentare le conversioni di vendita, dando ad Amazon una parte dei profitti. Anche se Amazon e Wayfair sono concorrenti, l’accordo ha generato profitto per entrambe le società.
Per una co-opetition vantaggiosa, bisogna quindi assicurarsi che le aziende siano simili, ma che le risorse apportate da ciascuna delle aziende coinvolte siano diverse.

Per leggere il post originale sul blog di HBR: http://blogs.hbr.org/2014/02/use-co-opetition-to-build-new-lines-of-revenue/?utm_source=Socialflow&utm_medium=Tweet&utm_campaign=Socialflow

Napoli, 11/02/2014

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