Loading...

Tag: co-founder

Consigli per startup e imprese: adottare un approccio basato sulla trasparenza per ottenere i migliori risultati dal team

Avishai Abrahami è co-founder e CEO di Wix, piattaforma per il web development basata sul cloud che consente ai suoi utenti di realizzare siti web e mobile. Fondata nel 2006, la società ha raccolto un round di finanziamento da 10 milioni di dollari nell’aprile del 2010 e ha la sua sede principale a Tel Aviv, con uffici anche a San Francisco e New York.

Di recente, Entrepreneur ha pubblicato un post di Abrahami incentrato sul concetto della trasparenza, e di come un approccio basato su quest’ultima sia di fondamentale importanza per una startup in fase di crescita: in particolare, secondo l’autore la trasparenza è imprescindibile per i meeting aziendali che una startup dovrebbe organizzare regolarmente per il proprio team, garantendo che gli incontri si svolgano in un ambiente informale e rilassato.

Nella sua esperienza alla Wix, Abrahami ha sempre garantito lo svolgimento di meeting informali tra i componenti del team basati su un clima di onestà e trasparenza: le informazioni sullo stato di avanzamento di qualsiasi campagna di marketing, o dei processi di sviluppo dei prodotti, erano regolarmente messi a disposizione di tutti i membri del team della startup; allo stesso modo, il concetto di trasparenza è espresso anche dall’arredamento degli uffici, dove le pareti sono di vetro.

Abrahami afferma di essere convinto che la trasparenza sia stata il fulcro del successo della sua startup, in quanto ha consentito di ottenere:

1) UNITA’

Quando le startup si trovano in fase di crescita, inevitabilmente si trovano ad affrontare la sfida di dover trasmettere la passione per la mission aziendale a coloro che non facevano parte del team fondatore. La chiave per assicurarsi l’impegno di tutto il team, compresi i nuovi arrivati, secondo l’autore è assicurarsi di dar voce a tutti i componenti della squadra, a prescindere da quando sono arrivati.

In questa situazione la trasparenza gioca un ruolo fondamentale: mantenere informati i dipendenti su tutte le questioni inerenti l’azienda ripaga sempre, perché qualsiasi membro del team potrebbe avere un parere o un’idea che rappresentano un punto di svolta. Anche a livello organizzativo, secondo Abrahami, può essere utile eliminare livelli e divisioni che potrebbero ostacolare il senso di unità all’interno della startup.

Il ruolo dei leader della startup, infine, deve essere quello di mantenere il coinvolgimento del team al completo, dimostrando sempre che ogni membro della squadra è importante e apprezzato: in questo modo sarà più facile per il team far crescere la voglia e l’impegno di lavorare in maniera compatta per raggiungere gli obiettivi dell’azienda.

2) CREATIVITA’

Fin dal primo giorno, spiega l’autore, Wix ha istituito un sistema automatizzato di comunicazione aziendale che informa tutti i membri del team sugli aggiornamenti riguardanti la startup, in tema di prodotti, campagne e vendite. All’interno della sede di Wix sono stati montati degli schermi giganti che mostrano i progetti in corso.

Disporre di un efficiente sistema di comunicazione interna per il personale è fondamentale non solo per una grande azienda, ma anche per una startup, in quanto consente di massimizzare il valore dell’asset più importante: il capitale umano.

Nell’esperienza di Abrahami, è capitato che ottime idee per gli aggiornamenti delle funzionalità provenissero da membri del team addetti al marketing, o che campagne pubblicitarie di successo nascessero da idee stravaganti da alcuni sviluppatori. Non basta, quindi, riuscire ad assumere brillanti talenti nel team della propria startup: bisogna anche massimizzare questi talenti, offrendo loro la possibilità di accesso a tutte le informazioni. E tale possibilità di accesso è ottenibile solo garantendo la trasparenza all’interno del team.

3) RESPONSABILITA’

Quando un’azienda non offre possibilità di accesso alle informazioni, inevitabilmente incorrono in problemi relativi alla responsabilità e si ritrovano in situazioni nelle quali alcuni “puntano il dito” nei confronti di uno o più membri del team. Ad esempio, una decisione relativa ad un’attività specifica potrebbe aiutare lo sviluppo di un certo progetto e, contemporaneamente, danneggiarne un altro. O ancora, i singoli gruppi di lavoro potrebbero lavorare senza conoscere tutte le informazioni utili, perchè solo i dirigenti hanno a disposizione il quadro completo.

In una situazione del genere, chi dirige l’azienda si ritrova a dover incastrare i vari pezzi come se si trattasse di un puzzle e, oltretutto, è l’unico ad avere a disposizione tutte le informazioni per poterlo fare. Il risultato è un team che lavora senza piena consapevolezza e che si ritroverà spesso e volentieri a dire “Come potevo saperlo?”.

Offrire ai dipendenti la responsabilità, derivante dalla trasparenza sulle informazioni, è invece un segnale di stima, rispetto e fiducia: tutti sapranno di essere apprezzati, e saranno invogliati a dimostrare che è stata una buona scelta quella di riporre in loro la fiducia.

Infine, l’autore mette in luce un altro aspetto: lo sforzo di nascondere le informazioni al team, oltre che controproducente, è anche faticoso. La trasparenza, al contrario, è semplice ed efficace, ripaga sempre in termini di coinvolgimento del team e incoraggia il contributo personale che, a sua volta, aumenta la qualità del processo decisionale.

L’articolo originale di Avishai Abrahami è disponibile qui: http://www.entrepreneur.com/article/235873

Napoli, 01/08/2014

Ricerche di mercato e potenziali clienti: quali sono gli errori più frequenti dei founder prima di lanciare il prodotto di una startup?

Eli Portnoy è stato CEO e co-founder di startup come ThinkNear e ha esperienze lavorative in aziende di successo come Amazon. Di recente ha pubblicato un interessante post su Forbes, dedicato ai più frequenti e costosi errori che molti startuppers fanno all’inizio della propria attività imprenditoriale: lo spunto per l’articolo nasce da un suo incontro con il founder di una startup, finanziata da un VC, che si dichiarava profondamente sorpreso per il fatto che il suo prodotto non sembrava essere in sintonia con le esigenze del mercato.

Nonostante avesse, in precedenza, parlato a lungo con molti potenziali clienti, che avevano espresso pareri positivi sul prodotto della sua startup, una volta sul mercato le vendite faticavano a decollare: purtroppo, afferma Portnoy, questa situazione è piuttosto comune tra le startup. I founder, rinfrancati dalle reazioni positive dei potenziali clienti, si sentono sicuri di avere un prodotto di valore, ma si scontrano con una realtà differente una volta sul mercato.

Secondo l’autore, come spesso accade in molti altri ambiti, lavorare sodo non basta se non si lavora anche in maniera intelligente: parlare con molti potenziali clienti può essere uno spreco di tempo e di risorse se non si pongono le domande giuste. Ci sono infatti alcuni problemi “tipici” quando una startup affronta le ricerche di mercato:

1) Leading Questions

Si tratta di domande che potremmo definire “allusive”, nel senso che la maggior parte dei founders di una startup sono talmente convinti che le loro idee siano entusiasmanti da incappare nell’errore di non chiedere ai potenziali clienti se l’idea è buona o meno, bensì fanno domande che sono utili soltanto a convalidare le loro convinzioni. A volte si pongono domande troppo generiche, senza approfondire ulteriormente la questione, con il risultato che il potenziale cliente risponde semplicemente con un “sì” che può indurre il founder a credere che la persona intervistata vorrà acquistare il suo prodotto.

2) Dirty Lab

Quando gli scienziati conducono degli esperimenti in laboratorio, non tengono conto di alcune variabili. Spesso, gli imprenditori si comportano in maniera simile, conducendo le ricerche di mercato in modo tale da non rappresentare effettivamente la realtà, ma eliminando alcune variabili.
Ad esempio, si può evitare di menzionare fattori come il prezzo o l’impiego di tempo, che rappresentano invece delle variabili fondamentali nella decisione di acquisto di un potenziale cliente. In assenza di considerazioni su questo tipo di variabili, è facile per il cliente affermare che acquisterebbe il prodotto: bisogna quindi fare attenzione alle variabili da inserire nelle domande della ricerca di mercato.

3) Agreement Bias

Un terzo aspetto fondamentale che l’autore mette in evidenza è il fatto che, spesso, le persone si preoccupano di comportarsi in modo tale da rendersi gradevoli agli occhi degli altri. A volte è più facile dare una risposta positiva, che faccia piacere all’interlocutore.
Ecco perché bisogna considerare, quando si fa una ricerca di mercato, che spesso un potenziale cliente indeciso preferisce dire di essere interessato ad un prodotto piuttosto che deludere un founder, entusiasta della propria startup.

In conclusione, Portnoy offre alcuni spunti su come ottenere un buon feedback dai potenziali clienti intervistati prima del lancio. Il consiglio è quello di simulare una vera e propria vendita, andare sul mercato e cercare di vendere il proprio prodotto. Non interpellare i potenziali acquirenti chiedendo un feedback, ma semplicemente presentargli il prodotto.
Se sono entusiasti, chiederanno di iscriversi alla landing page per acquistare il prodotto quando sarà sul mercato. E nulla, afferma l’autore, dice che esiste un mercato per un prodotto più della conferma che c’è qualcuno pronto ad acquistarlo.

Per leggere il post originale, il link di riferimento è: http://www.forbes.com/sites/eliportnoy/2014/07/21/costly-mistakes-almost-every-entrepreneur-make/

Napoli, 21/07/2014

Consigli per startup: i sette passi da seguire per costruire una community fin dalla fase early stage

Costruire una community forte rappresenta un aspetto di fondamentale importanza per una startup, tanto che le figure di community builder, manager e architect sono ormai sempre più facili da incontrare nel team di una startup già nella fase early stage. I founder si stanno rendendo conto sempre di più che, prima della crescita e del social media marketing, ciò che davvero serve ad una startup sono le persone: in particolare, persone che abbiano a cuore la mission aziendale, che credano nel team e nel prodotto fin dagli inizi di una startup.

Il tema dell’importanza centrale di una community di riferimento per una startup è stato recentemente affrontato da David Spinks, co-founder della startup Feast, in un articolo pubblicato da Nibletz.com: a suo parere, la costruzione della community rappresenta per la startup una parte fondamentale del core business.

Spinks presenta due famosi esempi di startup che hanno iniziato con una piccola community per poi crescere sul mercato internazionale: Instagram, che all’inizio invitava gli influencer ad utilizzare il proprio prodotto, e Facebook, nato come social network destinato agli universitari che ha potuto poi allargare il numero di utenti dopo aver rafforzato la community di riferimento di partenza.

In ogni caso, la forza e il potere della community non si limita ai soli prodotti “social”: qualsiasi tipologia di startup può trarre benefici dall’impegno a costruire una community di early adopters, che potrà crescere e trasformarsi in un ampio gruppo di consumatori.

Per aiutare le startup ad orientarsi nella fase di costruzione della community, l’autore del post elenca sette passi fondamentali. Vediamo quali sono:

1) Costruire la community intorno alla mission

Bisogna impostare la creazione della community facendo leva sulla mission aziendale, sul problema che la startup cerca di risolvere: non si deve cadere nell’errore di costruire la community intorno al marchio o al prodotto. In una startup early stage, infatti, è altamente probabile che il prodotto cambierà più volte: ciò che resta fermo è il problema da risolvere e, di conseguenza, la mission.

2) Iniziare con una persona alla volta

Spesso le startup hanno fretta di crescere: ma anche quelle che oggi sono grandi aziende con miliardi di dollari di fatturato hanno iniziato con una persona che ha deciso di sostenere una società nuova di zecca, che aveva tutto da dimostrare e la passione per un problema da risolvere.

L’aspetto positivo è che non c’è neanche bisogno di avere già un prodotto da pubblicizzare: basta avere una mission ben chiara per iniziare a costruire la community. Può anche essere più semplice incontrare, una alla volta, le persone che hanno interesse a risolvere il problema al centro della tua mission e cercare di imparare il più possibile da ognuna di esse. Il passo successivo è quello di collegare le singole persone che incontri, per avere una community.

3) Fare in modo da far sentire speciali i membri della community

Probabilmente si sentono già speciali, se il founder della startup ha impiegato del tempo per incontrarli e parlare con loro. Occorre continuare su questa strada, facendo sentire ogni membro della community speciale e privilegiato per essere parte del network. Un consiglio utile è quello di mantenere la community esclusiva, con accesso su inviti, per mantenere alto il senso di appartenenza ad una community “diversa dalle altre”.

4) Costruire la community per i suoi membri, non per te

Spesso le startup fanno l’errore di impostare la community chiedendo ai suoi membri di aiutarli con tweets e feedback: secondo l’autore questa impostazione è sbagliata, perché ci si dimentica che le persone stanno già investendo per noi qualcosa di molto prezioso, cioè il proprio tempo.

Dal momento che la community è costituita da persone con le quali abbiamo parlato, che conosciamo, dovremmo sapere quali sono le loro esigenze e i loro problemi. Per questo, la startup dovrebbe lavorare per risolvere tali problemi, facendo tesoro del tempo e dell’energia che la community apporta al team.

5) Creare una piattaforma adatta alla conversazione

Un gruppo di persone può considerarsi una vera e propria community soltanto se i suoi membri stanno costruendo delle relazioni tra loro. E le relazioni si costruiscono attraverso la conversazione.

Per cui, è indispensabile offrire ai membri di una community la possibilità di interagire: il consiglio di Spinks è quello di utilizzare, all’inizio, dei gruppi ad hoc su Facebook. Questo perché la piattaforma è già un luogo di incontro familiare per i membri della nuova community che si sta creando.
Inoltre, è possibile organizzare degli eventi per facilitare l’incontro tra i componenti della community.

6) Assicurarsi che ognuno si senta ascoltato

E’ molto importante che i membri di una community sappiano che c’è qualcuno in ascolto: bisogna rispondere sempre ad ogni messaggio e ad ogni commento, e se un altro membro della community risponde in maniera appropriata occorre far capire che si è d’accordo con “like”. Inoltre, bisogna sempre incoraggiare i membri della community a rispondere ai post e commentare.

In una nuova community all’inizio ci saranno quelli che Spinks definisce “silenzi imbarazzanti”: è un aspetto inevitabile, ma bisogna continuare ad impegnarsi e a mantenere un atteggiamento positivo. Una volta che i meccanismi inizieranno ad ingranare, i benefici di una community ripagheranno tutti gli sforzi.

7) Crescere in maniera costante

Una volta che la community inizia a girare, è importante continuare a farla crescere tenendo continuamente alta l’energia. Bisogna continuare a portare persone all’interno della community, a poco a poco ma costantemente.
Seguendo questi consigli, con il tempo la startup avrà a disposizione una community forte e numerosa che sarà un’ottima base per la vita dell’azienda e del prodotto.

Il post originale è disponibile qui: http://nibletz.com/2014/07/02/how-to-build-a-strong-community-for-your-startup/

Napoli, 11/07/2014

Consigli alle startup: come costruire il percorso di crescita fin dalla fase early stage

Sheena Tahilramani è co-founder di 7 Second Strategies, società specializzata in public relations con sede a Pasadena: ha recentemente pubblicato un post su Entrepreuner, incentrato sul tema della crescita esponenziale di una startup e su alcuni aspetti che possono fare la differenza tra scalare il business e far fallire l’intero progetto imprenditoriale.

In particolare per un imprenditore che lavora da solo o a capo di una piccola società con un team composto da meno di 10 persone, il periodo iniziale di una startup può significare lunghe ore di lavoro e la tendenza a farsi sopraffare dalle attività che la startup richiede in questa fase early stage, perdendo di vista alcuni aspetti importanti che, se trascurati, comporteranno problemi al futuro sviluppo della startup.

Spesso, infatti, il founder di una startup trascura un’attività che è invece fondamentale per gettare le basi di una startup in grado di affrontare il suo percorso di crescita e di sviluppo: la creazione di una solida cultura aziendale e un approccio globale e fondato sulla pianificazione a lungo termine. Secondo Sheena Tahilramani è necessario impostare il percorso seguendo tre fasi fondamentali:

1) Impostare la mission e la vision, conoscendo la differenza tra i due concetti.

Anche se mission e vision possono sembrare in apparenza due concetti simili, questi due aspetti delineano le basi dell’azienda e del brand in modi differenti. La vision rappresenta “una forza globale aspirazionale”, le basi che spingono avanti nel tempo l’azienda; la mission si addentra invece nello specifico di ciò che l’azienda fa, in che modo e perché.

Anche se può sembrare relativamente poco importante costruire questi due concetti agli inizi di una startup, l’immagine del brand che i consumatori si costruiscono in base alla vision e alla mission che l’azienda dichiara possono rappresentare in seguito dei driver di crescita fondamentali.

Per costruire efficacemente la mission e la vision, occorre domandarsi: Perchè sto creando la mia azienda e dove voglio che sia tra 10 anni?

2) Sviluppare un piano di crescita globale.

L’autrice parte in questo caso da un presupposto ben preciso: circa la metà delle nuove imprese negli USA sopravvive per almeno cinque anni, e un terso sopravvive per almeno dieci anni. Ecco che un piano di crescita diventa fondamentale per garantire un business sostenibile.

Se il fatturato annuo della società non cresce in maniera almeno pari (o superiore) al tasso di inflazione, significa che l’azienda si sta muovendo all’indietro e che i concorrenti stanno avendo la meglio. Un piano di crescita efficace consente di evitare che l’azienda rimanga indietro e assicura un cammino pari o più veloce di quello della concorrenza.

Naturalmente bisogna sempre avere ben presente la natura mutevole del mercato, soprattutto in una situazione economica come quella attuale: ma anche qui, disporre di un piano di crescita secondo Sheena Tahilramani non è mai inutile: meglio avere un bersaglio mobile, che non avere alcun bersaglio. Anche se il piano avrà bisogno di continui aggiustamenti e modifiche, bisogna comunque stabilire le milestones per il percorso di crescita, in modo tale da avere una base solida quando si dovranno affrontare grandi decisioni per il business.

3) Assumere un “chief growth officer” può essere di grande aiuto.

Spesso l’assunzione di un dirigente che si occupi di gestire la crescita può essere un passo difficile da fare per una startup: ma è importante tenere l’idea in considerazione e rendersi conto che assumere un “chief growth officer” sarebbe un ottimo investimento.
Una startup deve vedere nella crescita il suo grande obiettivo, ed assumere qualcuno che si occupi di questo aspetto può fornire un’indispensabile guida.

Si tratta di una consapevolezza cui stanno giungendo molti CEO di aziende e startup oltreoceano: l’autrice cita infatti l’esempio di The Hershey Company, che dopo aver assunto un “chief growth officer” ha visto aumentare le proprie vendite annuali progressivamente, fino a raggiungere una crescita delle revenue pari al 50%.

In conclusione, una cultura ben definita, un solido piano di crescita e l’assunzione di un “chief growth officer” alla guida la strategia forniscono al CEO tutti gli strumenti necessari per scalare in modo più rapido ed efficiente: sicuramente lavorare sulla propria attività è la priorità per un CEO, in particolare se segue un approccio lean. Ma allo stesso tempo, imparare a fare un passo indietro giorno per giorno concentrandosi su questi aspetti critici assicura alla startup una crescita misurabile ed efficace.

Per leggere il post originale: http://www.entrepreneur.com/article/234411

Napoli, 06/06/2014

Scalabilità, crescita e team building: i consigli di Ronnie Castro alle startup

Ronnie Castro è il co-founder di Porch.com, una startup che aiuta i propri clienti a gestire nel modo migliore la propria casa. Nelle sue precedenti esperienze lavorative, si è occupato di revenue generation e customer acquisition presso aziende del calibro di Google e Expedia.

Di recente, Castro ha pubblicato un articolo su Nibletz dedicato alla tematica del team building in una startup, intesa come la costruzione del team attraverso l’assunzione di nuovi componenti: il suo punto di partenza è proprio l’esperienza di team building in grandi aziende del settore tech come Google. In una situazione del genere, è facile poter assumere laureati delle migliori università e costruire team composti da persone di grande talento.

In una startup, spesso, la situazione è molto diversa: l’azienda, soprattutto quando è in fase di crescita, si trova a dover gestire cambiamenti rapidi e continui per affrontare l’improvviso successo del business. Quando arriva il momento di scalare, in particolare, diventa indispensabile assumere nuove persone all’interno del team e occorre farlo rapidamente: questa può essere una vera e propria sfida per una startup.

Occorre muoversi con molta attenzione e consapevolezza quando si assume un nuovo componente nel team: in una startup i dipendenti sono pochi, se ad esempio il team è composto da 9 persone e si decide di assumerne un’altra, questa persona andrà a rappresentare il 10% dell’intero team.
Castro sottolinea, infatti, che assumere la persona sbagliata in una situazione del genere può rappresentare un errore fatale.

Ecco perché l’autore consiglia, quando si valutano i candidati, di tenere attentamente in considerazione le referenze e i precedenti successi: il processo di assunzione in una startup deve seguire criteri molto più rigidi e occorre essere molto esigenti. A questo scopo è utile servirsi della metodologia lean startup per gestire il processo di assunzione.

Ciò significa cercare e trovare le persone che presentano determinate caratteristiche: in particolare, Castro tiene conto della flessibilità e delle capacità di problem solving.
In una startup le cose cambiano a ritmi vorticosi e spesso ci si ritrova a dover fronteggiare situazioni in cui occorre trovare risposta a domande che apparentemente sono impossibili da decifrare: proprio per questo la flessibilità e le capacità di problem solving sono indispensabili.

Inoltre, Castro consiglia di costruire il team tenendo ben a mente la struttura dell’organizzazione aziendale: spesso accade, infatti, che quando una startup inizia a crescere e ad aumentare il numero di componenti del team e di reparti la gestione inizia a rallentare e compaiono alcune caratteristiche “burocratiche”. Il problema di queste startup è che non hanno studiato bene la struttura organizzativa, e per questo la comunicazione all’interno dell’azienda diventa complicata e poco efficace.

Il consiglio di Castro è quello di stabilire fin da subito quali sono i servizi indispensabili per accorciare i tempi di produzione, e trovare il modo di collegarli in maniera efficace per far sì che le decisioni possano essere prese velocemente e autonomamente dal team. Costruire una struttura organizzativa aziendale efficiente è un compito difficoltoso, per il quale è indispensabile un’attenta pianificazione e un costante monitoraggio da parte della leadership.

Strettamente collegato al tema del team building per una startup in fase di crescita è il problema dello spazio di lavoro: l’ideale, secondo Castro, sarebbe quello di trovare uno spazio “flessibile” in termini di possibilità di espansione, cercando un grande spazio vuoto e negoziando condizioni tali da pagare esclusivamente per i metri quadrati realmente occupati.
In questo modo, la startup può occupare progressivamente gli uffici evitando costosi traslochi.

Infine, Castro conclude affermando che scalare una startup non è sicuramente un compito facile: ma è un bel problema da avere, perché significa che l’azienda sta crescendo nel modo giusto. Ed è proprio in questa fase che occorre perseverare, scegliendo le persone giuste per costruire il team e offrendo loro l’ambiente di lavoro più appropriato (in senso figurato e letterale) per continuare a crescere.

Per leggere il post originale: http://nibletz.com/2014/04/17/startup-hire/

Napoli, 24/04/2014

Quali sono gli errori più frequenti per una startup alle prese con il fundraising?

Sam Altman è un imprenditore, attualmente presidente di Y Combinator e precedentemente co-founder e CEO della startup Loopt, applicazione mobile per il social networking, acquisita nel 2012 dalla Green Dot Corporation.

In un post pubblicato qualche tempo fa sul suo blog, Altman ha analizzato una fase fondamentale per una startup in crescita: la fase del fundraising. L’obiettivo del suo post è quello di individuare alcuni degli errori più frequenti che i founder di una startup possono fare quando si affacciano alla fase di fundraising.

1) Rendere il processo “iper-ottimizzato”

Moltissimi founder cercano strade difficili per la raccolta di capitali, mettendo spesso in pratica dei “trucchi” che pensano siano utili ma in realtà non fanno che complicare le cose. In realtà, scrive Altman, è tutto piuttosto semplice: se l’azienda funziona bene, otterrà dei buoni risultati in termini di fundraising. L’unica strada da percorrere, quindi, è quella di lavorare per migliorare il più possibile l’azienda, il suo funzionamento e i suoi risultati.

Il processo di fundraising, infatti, è molto semplice: innanzitutto bisogna trovare il modo di ottenere un incontro con i potenziali investitori. Dopodichè, occore spiegare loro in che modo la startup può riuscire a fargli ottenere guadagni elevati. Ciò significa spiegare agli investitori la mission aziendale, il prodotto, la traction, la visione futura, il mercato, la concorrenza, quale sarà il vantaggio competitivo nel lungo periodo, come hai intenzione di ottenere dei ricavi e come si compone il team.

Occorre riuscire a implementare un vero e proprio ambiente competitivo: le migliori condizioni in termini di raccolta capitali si ottengono quando più investitori sono in concorrenza tra loro per finanziare una startup. Secondo Altman, è questa l’unica “regola del gioco” valida.

Non bisogna, quindi, ricorrere a piccoli e grandi trucchi: l’unica strada percorribile è quella di lavorare sodo per far funzionare il business nel migliore dei modi, gli investitori decidono di finanziare una startup solo se sentono di poterlo fare con fiducia.

2) Numeri, richieste e valutazioni troppo alti

Quando si cerca di ottenere dei finanziamenti, è importante mantenere quelli che Altman definisce “clean terms”: spesso le startup alla ricerca di capitali tendono infatti a valutare per eccesso i numeri, facendo richieste più elevate di quanto sia realmente necessario.

Alla base di questo errore c’è la convinzione dei founder di “impressionare” i potenziali investitori: in realtà questo atteggiamento allontana gli investors, mentre chiedere semplicemente ciò di cui si ha effettivamente bisogno è l’atteggiamento vincente nel fundraising.

3) Non riuscire a creare un ambiente competitivo

Si tratta di una fase critica del “gioco” del fundraising. Come accennato più sopra, secondo Altman è fondamentale mettere “in competizione” più potenziali investitori.

La parte più difficile da gestire è sicuramente quando arriva la prima offerta: una volta ottenuta un’offerta, infatti, se non ne arrivano altre in tempi stretti si corre il rischio di voler aspettare troppo ad accettare (in attesa che altri investitori facciano una proposta) e di perdere quella che potenzialmente potrebbe essere una buona opportunità.

La cosa migliore, sarebbe trovare un investitore che ama davvero ciò che la startup sta facendo e che sia totalmente disposto a finanziarla: quando c’è una prima offerta di questo tipo, la startup può aspettare più tranquillamente e cercare di ottenere altre offerte.
Naturalmente occorre ricompensare il primo investitore, assicurandogli priorità o quanto meno la sicurezza di rientrare nel round di investimento.

Quando si riesce a creare un buon ambiente competitivo tra potenziali investitori, il processo di fundraising diventa davvero in discesa e spesso anche chi in precendenza non aveva mostrato interesse a finanziare il progetto inizia a considerare un possibile investimento.

4) Presentarsi agli investitori in maniera arrogante, irrispettosa, ecc.

Presentarsi ai potenziali investitori con un’aura da “nerdy founder” è un vezzo inutile e controproducente: occorre essere sempre rispettosi quando si incontrano gli investors. Questo significa, avverte Altman, che non bisogna mai pretendere una decisione dopo il primo incontro (a meno che non si stia davvero per chiudere il round di finanziamento).

Altman consiglia di ricordare sempre che gli investitori sono persone che vogliono essere amate, bisogna fargli sapere che si desidera davvero lavorare insieme a loro per renderli più inclini ad investire nella vostra startup.

5) Non ascoltare

Gli investitori sono preoccupati di non rischiare di perdere i propri capitali, mentre i founder sono persone ottimiste per eccellenza. Questo significa che, molto spesso, quella che per un investor è una versione “carina” di un no viene recepita dal founder come un “con un paio di ulteriori incontri, possiamo arrivare ad un sì”.

Bisogna imparare ad ascoltare con molta attenzione, e capire se è il caso di insistere ulteriormente o è più saggio e fruttuoso andare avanti e incontrare altri potenziali finanziatori.

6) Non avere un “lead investor”

Altman spiega che spesso i founder che raccolgono capitali da più investitori si compiacciono del fatto che nessuno di questi ha un particolare “potere” rispetto agli altri. La realtà, però, è che un investitore con poco potere nelle aziende che finanzia non si sente veramente coinvolto e non si adopera per il successo della startup.

Sarebbe invece davvero utile avere un “lead investor”, con il quale organizzare regolari incontri mensili per metterlo al corrente dei progressi: questi incontri fissi creano infatti una tensione positiva nella startup, soprattutto a livello operativo e di raggiungimento dei risultati prefissati.

7) Avere un pitch scarno

Spesso i founder si fanno prendere dalla voglia di seguire alla perfezione un template, spiegando tutto ciò che sanno sui concorrenti, sull’evoluzione del mercato, ecc. Ma altrettanto spesso, sono i primi ad annoiarsi e questa noia è palese anche all’esterno.

Il consiglio di Altman per un pitch vincente da presentare agli investitori è quello di concentrarsi sulle parti del business che davvero ti entusiasmano: ciò renderà entusiasti anche gli investitori. Trasmettere la passione per il proprio business è fondamentale, ed è quasi impossibile mentire a riguardo.

Gli investitori vogliono ascoltare una vera e propria storia, che racconta come il team ha deciso di lavorare all’idea, come si sono incontrati i co-founder, ecc.: sono aspetti da non tralasciare nel proprio pitch.

Inoltre, gli investitori intelligenti sono alla ricerca di progetti che possano realmente avere successo: occorre quindi concentrarsi sugli aspetti fondamentali che facciano capire che si sta davvero costruendo una grande azienda.

8) Non chiedere delle referenze sugli investitori

I grandi investor possono apportare una quantità enorme di valore aggiunto, nella stessa misura in cui i cattivi investitori possono rendere davvero la vita difficile ai founder di una startup: ecco perché Altman succerisce di chiedere sempre informazioni a chi ha già ottenuto finanziamenti, cercando di ottenere delle vere e proprie referenze sugli investitori con cui ci si prepara a collaborare.

9) Non avere una vision sufficientemente chiara

Se non si è fermamente convinti di ciò che si fa, e si è sempre d’accordo con i suggerimenti dell’investitore, significa che la vision della startup non è sufficientemente chiara. Altman sostiene che, pur dovendo sempre ascoltare ciò che l’investitore ha da dire, si dovrebbe rimanere sempre fermi su ciò in cui si crede davvero.

I founder che hanno una vision aziendale chiara riescono a spiegare ciò che stanno facendo e perché il loro progetto è importante in poche e semplici parole: una vision chiara implica solitamente una grande idea. Fermo restando che esistono sempre delle incognite: anche se non è possibile avere tutte le risposte, prima di iniziare la fase di fundraising è fondamentale avere una vision chiara.

10) Non conoscere le metriche chiave

Le possibili domande degli investitori per una startup in fase di early stage sono essenzialmente due: “Il team sa cosa fare?” e “Il team è in grado di farlo?”.
La risposta alla prima domanda è nel punto 9: occorre avere una vision aziendale chiara e definita.
Per la seconda domanda, invece, occorre essere in grado di dimostrare la qualità operativa attraverso i numeri e le metriche chiave: Altman afferma che è davvero sorprendente come spesso le aziende si rivolgano ai potenziali investitori senza conoscere queste informazioni.

Per leggere il post originale di Sam Altman: http://blog.samaltman.com/fundraising-mistakes-founder-make

Napoli, 17/04/2014

Storie di startup di successo: il co-founder di 24Floors racconta il processo di assunzione e l’importanza di ammettere di non avere tutte le risposte

In un post pubblicato recentemente su The Next Web, Jason Freedman, co-founder di 42Floors (startup americana che offre un portale on-line specializzato nell’affitto di office space), ha raccontato ai lettori la sua esperienza vissuta con i colloqui e l’assunzione di Kiran Diwela, esperto nelle attività di data supply chain.

L’esperienza di Freedman è interessante per le startup, in quanto offre degli utili spunti di riflessione su come gestire i rapporti con i potenziali collaboratori e dimostra come, in alcuni casi, ammettere di non avere tutte le risposte a disposizione può trasformarsi in un punto a favore per il founder di una startup.

Come accennato, Kiran Diwela è un esperto in materia di data supply chain: si tratta di una figura-chiave per la maggioranza delle startup, e in particolare Diwela aveva ottime competenze in tema di comunicazione e management. Queste caratteristiche lo rendono un candidato perfetto per il team di 42Floors, che sposa alla perfezione la cultura aziendale della startup.

Freedman racconta che il processo di assunzione di Diwela è stato molto difficile: aveva diverse opzioni, e sapeva che 42Floors era molto interessata a farlo entrare nel team. Ecco perché Freedman ha deciso di mettersi a sua completa disposizione, rispondendo a tutte le domande e i dubbi che Diwela aveva da porre.

Diwela voleva capire se le sue competenze erano effettivamente adatte al settore immobiliare, per lui completamente nuovo. Inoltre, aveva bisogno di sapere se stava entrando a far parte del team di un’azienda che sarebbe diventata davvero grande.

Durante i vari incontri tra Freedman e Diwela, il co-founder di 24Floors si è sentito come se stesse rivivendo di nuovo il processo di due diligence vissuto nel periodo di fundraising: ha mostrato a Diwela tutti i piani della startup, gli ha parlato degli obiettivi a breve, medio e lungo termine e gli ha spiegato nel dettaglio il piano strategico.

Ma il momento fondamentale che Freedman ricorda è quando Diwela gli ha chiesto quali fossero i piani della startup per mantenere i dati aggiornati quando il business avrebbe iniziato a scalare: si tratta di un aspetto di importanza cruciale per un business come quello di 24Floors. Se non si riesce a mantenere l’aggiornamento dei dati, infatti, i clienti si ritrovano ad avere la peggiore user experience possibile: può succedere di rispondere ad inserzioni non più esistenti, danneggiando enormemente la reputazione dell’azienda.

Un costante e puntuale aggiornamento dei dati, invece, garantisce alla startup la reputazione di fonte di dati attendibile per i clienti: nella fase iniziale, 24Floors riusciva ad acquisire e aggiornare i dati manualmente, ma questo non sarebbe stato possibile nel momento in cui l’azienda avrebbe iniziato a crescere e a scalare.

Il compito di Diwela sarebbe stato proprio quello: trovare il sistema per mantenere i dati costantemente aggiornati. I founders avevano riflettutto sulle possibili strategie da adottare, ma la realtà era che non avevano idea di come affrontare la questione.
Fu proprio quella la risposta che Freedman diede a Diwela: “Non lo so”.

E, con grande sorpresa di Freedman, quella fu la risposta migliore: Diwela, infatti, gli rispose immediatamente che era esattamente la cosa che voleva sentirsi dire per eliminare i suoi dubbi sull’accettare la loro offerta.
Dire la verità, ammettere di non avere la risposta, ha reso credibile il discorso di Freedman agli occhi di Diwela.

L’autore del post racconta che questo molto spesso non accade: i founders delle startup difficilmente ammettono di non avere una risposta, cercano di mostrarsi sempre molto fiduciosi sul prodotto, sul team, sulle strategie, sui futuri andamenti del business e del mercato.
Questo atteggiamento, però, può far sembrare poco credibili e non consente di imparare e, magari, venire a conoscenza proprio della risposta che non si ha.

In conclusione, Freedman consiglia di ammettere semplicemente la verità: è l’unico modo per trasformare un “non lo so” in quello che lui definisce “un compito a casa”.

 

Il post originale è disponibile qui: http://thenextweb.com/entrepreneur/2014/03/09/dont-know-admitting-dont-answers-perfectly-okay/#!zwNnD

Napoli, 13/03/2014

Come costituire un team di successo con i consigli di Steve Blank

In un post recentemente pubblicato sul suo blog, Steve Blank affronta un argomento di cui si parla poco: le caratteristiche che un team di founders deve possedere per creare una grande startup.
Il presupposto di partenza di Blank è che esistono tre figure fondamentali in una startup, con differenti caratteristiche: il founder, il team dei founders e il founding CEO.
Vediamo quali sono le definizioni di Blank e le caratteristiche che ciascuna di queste figure deve possedere a suo parere per costruire una startup di successo.

1) Il Founder: l’idea
Il founder è, secondo Blank, colui che è in possesso di un’idea originale, una scoperta scientifica, un’innovazione tecnologica, un’intuizione, una passione: il founder recluta i co-fondatori, che coinvolge giorno per giorno nel processo di creazione della propria startup.

Blank pone l’accento su due aspetti che ritiene fondamentali: il primo, riguarda la capacità di distinguere tra un’idea innovativa che potrà effettivamente trasformarsi in un’impresa di successo e un’idea che non potrà mai essere commercializzata .
Il secondo aspetto fondamentale è che bisogna essere consapevoli che, nel momento in cui si costituisce un team, non è detto che il founder che ha avuto l’idea debba necessariamente assumere la leadership: è qui che Blank anticipa la differenza fondamentale tra founder e CEO, che sarà spiegata meglio più avanti.

2) Il Founding Team: the rock on which to build the company
Il gruppo che costituisce la società (che Blank definisce come la roccia su cui costruire la società) è formato dal founder e da un ristretto team di co-fondatori in possesso di competenze complementari a quelle del founder.
Si tratta del team che dovrà assicurarsi di partire dall’idea originale per trovare il miglior modello di business ripetibile e scalabile, con un product/market fit, dopo aver effettuato tutti i test necessari su ogni aspetto del business model (pricing, canali distributivi, partner, costi, etc.).
Secondo Blank non esiste un “numero magico” per i componenti di un team, ciò che conta davvero sono le competenze in possesso dei fondatori: queste ultime devono essere quelle più adatte a mettere in pratica l’idea imprenditoriale, e devono essere complementari tra loro.
Blank consiglia agli aspiranti startuppers di porsi due domande per decidere se una persona debba essere o meno un co-founder: bisogna chiedersi se è possibile avviare la società senza quella persona, e se è possibile trovare qualcun altro simile. Se entrambe le risposte sono negative, quella persona sarà un co-founder. Secondo Blank, inoltre, se la risposta ad una delle due domande è “sì”, quella persona dovrà essere assunta in seguito tra i primi dipendenti della startup.

Tra le caratteristiche chiave che Blank elenca per un team di founders vincente, ritroviamo la passione, la determinazione, la tenacia, la curiosità ed il rispetto reciproco: è fondamentale che i co-founders valutino la loro capacità di lavorare insieme come un gruppo affiatato, con coraggio e fiducia per gli altri membri del team.

3) Founding CEO: Reality Distortion Field e Comfort in Chaos
Secondo Blank, la visione idealista della leadership collettiva, senza una persona responsabile di prendere le decisioni, è il modo più veloce perchè la startup esca dal mercato. Nel mondo delle startup, la velocità, il ritmo e le decisioni prese senza timore sono fondamentali per mantenere il vantaggio competitivo: per questo, è fondamentale che ci sia un CEO che prenda le decisioni in maniera rapida ed immediata.

Il Founding CEO è il “primo tra uguali” in un team di fondatori, e secondo Blank spesso non è il più intelligente del gruppo: ciò che distingue un Founding CEO dai co-founders è la loro capacità di guardare la realtà in una maniera distorta, caratterizzata dalla totale assenza di paura che essi usano per mandare avanti la società.
Tra le caratteristiche più importanti del Founding CEO, Blank elenca la passione, la dedizione totale alla mission della società e l’abilità di comunicare la loro idea che, seppur apparentemente folle, è in grado di cambiare il mondo.
Inoltre, Blank spiega che il Founding CEO è totalmente a proprio agio nel caos e nell’incertezza: ciò è fondamentale in una startup, dove bisogna affrontare quotidianamente i problemi di sviluppo del prodotto, o le difficoltà di acquisizione dei primi clienti. Si tratta di situazioni in continua evoluzione che spesso sfociano improvvisamente in scenari imprevedibili: per dirlo con le parole di Blank, il Founding CEO cerca ogni giorno di risolvere un’equazione in cui quasi tutte le variabili sono ignote.
Un grande Founding CEO è in grado agire per modificare lo status della situazione, senza stare ad aspettare che qualcuno gli dica cosa fare.

La conclusione di Blank è che conoscere le differenze tra Founder, Founding Team e Founding CEO è fondamentale per gli aspiranti startuppers che potranno costruire il proprio team scegliendo i compagni di viaggio con cui costruire una startup di successo.

________________________________________________________________________

Anche il CSI mette a disposizione i suoi mentor per aiutarti a creare un team di successo….

Hai un’idea e non un team?

Hai competenze specialistiche ma ti manca l’idea?

Iscriviti gratuitamente al TechDay e partecipa a VulcanicaMente 2!

Napoli, 26/08/2013

1 2 3